Disastro di Chernobyl, il peggior incidente nucleare della storia che poteva distruggere l’Europa
Il disastro di Chernobyl è stato uno dei peggiori incidenti nucleari della storia. I maldestri tentativi dell’Unione Sovietica per nascondere la verità hanno aggravato la situazione già disperata. Mentire è una prerogativa del governo sovrano che restituisce una versione deformata della realtà: milioni di persone in Europa e in Russia sono state esposte a pericolosi livelli di radiazioni a causa di quel comportamento sconsiderato. Il prezzo delle menzogne è stato così alto che sarà impossibile vivere nella zona di esclusione ancora per migliaia di anni. Solo pochi disperati ci riescono: i Samosely. Ogni ricerca sugli effetti del disastro di Chernobyl porta a risultati differenti perché non esistono dati affidabili dall’incidente. Il governo ha alterato i rilevamenti sui reali livelli di radioattività, utilizzando personale impreparato e incapace di leggere i dosimetri con la giusta competenza. Gran parte della documentazione è stata poi secretata dal KGB.
Il disastro di Chernobyl è avvenuto la notte fra il 25 e il 26 aprile del 1986 durante un test di sicurezza sul reattore numero quattro, a pochi chilometri dalla città di Pripyat. Oggi è possibile visitare parte della centrale nucleare compresa la sala controllo numero quattro, il cuore del male dove tutto iniziò. La visita dell’impianto si svolge in totale sicurezza. Alcune zone sono ancora inaccessibili per l’alto livello di radiazioni. La centrale nucleare Vladimir Ilyich Lenin è universalmente conosciuta come centrale di Chernobyl per la vicinanza alla città che porta lo stesso nome. Era composta da quattro reattori RBMK 1000 ciascuno in grado di produrre 1000 MW di energia elettrica – equivalenti a 3200 MW di energia termica. Era l’orgoglio dell’industria nucleare sovietica, il posto dove ogni tecnico specializzato sognava di lavorare.
Reattore RBMK 1000, il mostro senza controllo
Il prototipo del reattore RBMK – Reaktor Bolšoj Moščnosti Kanalnyj o reattore di grande potenza a canali – moderato con grafite e raffreddato ad acqua entrò in funzione nel giugno del 1954 nella cittadina di Obninsk. Basato sulla tecnologia militare, AM-1 – Atom Mirny o atomo pacifico – fu il primo reattore nucleare del mondo per uso civile collegato alla rete elettrica in grado di erogare fino a cinque MWe (trenta MW termici). Nonostante il suo nome rassicurante AM-1 fu progettato per processare plutonio a basso costo per le bombe nucleari. Il successo di Obninsk portò l’Unione Sovietica verso un futuro illuminato dall’energia atomica sicura e a buon mercato. Le doti del rivoluzionario programma nucleare furono decantate negli anni a venire da una martellante propaganda che prometteva una crescita economica senza fine.
Il primo reattore RBMK 1000 fu attivato a Leningrado nel dicembre del 1973, lo stesso tipo in costruzione a Chernobyl. L’Europa Occidentale e gli Stati Uniti puntarono su reattori moderati e raffreddati ad acqua, progetto ritenuto più sicuro rispetto a quello russo. Due anni dopo avvenne il primo grave incidente nucleare nell’unità uno di Leningrado: si verificò la fusione parziale del nucleo in seguito a un intervento di manutenzione. Il reattore RBMK 1000 è un gigantesco cilindro largo dodici metri e alto come un edificio a due piani. Perfino Dyatlov, uno stimato ingegnere esperto nella costruzione dei più piccoli reattori per sottomarini, si meravigliò delle sue dimensioni. Studiandone le caratteristiche, si rese subito conto delle sue pericolose criticità. Il reattore è protetto nella parte superiore e inferiore dallo scudo biologico: due dischi d’acciaio e serpentinite dal diametro di diciassette metri pensati per schermare il calore e le radiazioni. Il progetto originario prevedeva un’ulteriore copertura di protezione, ma le sue colossali dimensioni avrebbero fatto lievitare i costi e così non fu mai adottata.
Viktor Bryukhanov, colui che diede inizio alla fine
Agli inizi degli anni ’70 l’Unione Sovietica s’impegnò per realizzare un ambizioso progetto: diventare la più grande potenza nucleare europea e recuperare il terreno perso nei confronti degli Stati Uniti. Quel difficile compito fu affidato a VIKTOR BRYUKHANOV. Il futuro direttore della centrale di Chernobyl era laureato in ingegneria elettrotecnica ma di nucleare non ne sapeva nulla. Il partito però riteneva più importanti la fedeltà e l’ambizione alla competenza tecnica. Bryukhanov, a soli trentaquattro anni, aveva dimostrato grandi qualità dedicando la sua giovane vita all’utopia socialista. Nel 1969 il governo di Mosca gli affidò ufficialmente il prestigioso incarico: costruire la prima centrale nucleare in Ucraina e svilupparla fino a farla diventare la più grande e potente del mondo. Nel 1970 Bryukhanov scelse di costruire l’impianto nella zona paludosa sulle sponde del fiume Pripyat, vicino alla città di Chernobyl.
Bryukhanov – un uomo tranquillo e ben voluto da tutti – dovette presto scontrarsi con la complicata macchina della burocrazia, la corruzione, la scarsità di attrezzature e materie prime. Il giovane direttore, destreggiandosi fra problemi imprevisti e le sempre più pressanti scadenze che imponeva il partito, sovrintendeva anche alla costruzione dell’atomgrad – città atomica – di Pripyat. Ben presto si accorse che per riuscire nell’impresa doveva scendere a compromessi col farraginoso apparato sovietico. Iniziò a usare materiali scadenti e non a norma, come la copertura bituminosa infiammabile che ricopriva gli edifici della centrale. Al completamento del primo reattore nel 1977 seguirono il secondo nel 1978, il terzo nel 1981 e il quarto nel 1983. Prima del disastro di Chernobyl questa centrale forniva il 10% dell’energia elettrica di tutta l’Ucraina. Bryukhanov aveva realizzato l’impossibile: una centrale atomica con quattro potenti reattori e una fiorente città modello che ospitava i lavoratori e le loro famiglie. La costruzione di altri due reattori, il cinque e il sei, era avviata e i piani di ampliamento prevedevano altri quattro reattori sulla sponda opposta del fiume. Bryukhanov sarebbe stato a capo della più grande centrale nucleare del mondo e già sentiva aria di promozione, anche se nel 1982 la centrale nucleare di Chernobyl subì il suo primo grave incidente al nucleo del reattore uno. La notizia fu subito insabbiata per essere rivelata solo tre anni dopo. A Bryukhanov rimaneva solo una cosa in sospeso: un test di sicurezza sul reattore quattro che aveva rimandato troppe volte. In seguito al disastro di Chernobyl, al direttore dell’impianto quel test costò molto caro.
L’energia nucleare, le radiazioni e l’impatto sull’ecosistema
Il punto di forza del nucleare è l’elevata energia sprigionata da bassi quantitativi di combustile, l’uranio. In pochi chilometri quadrati è possibile concentrare la produzione di enormi quantità di energia elettrica. Il mercato dell’uranio è però condizionato da un’offerta limitata causata dai lunghi periodi per rendere funzionali le nuove miniere e della scarsità di manodopera che deve lavorare in condizioni di altissimo rischio per la propria salute. Vari studi evidenziano che la durata delle attuali riserve di uranio è inferiore a cento anni. Per sopperire al crescente fabbisogno di energia, il combustibile dei reattori spenti e delle testate atomiche smantellate è riprocessato e riutilizzato nelle centrali a uso civile.
Durante la procedura di estrazione il territorio è devastato in maniera irreparabile: l’uranio è estratto dalle miniere a colpi di dinamite e gli scarti di frantumazione rimangono abbandonati. Questo processo libera nell’ambiente un grande quantitativo di polvere radioattiva. Esiste un’altra tecnica per estrarre l’uranio: pompare ad alta pressione una soluzione a base di acido solforico nel terreno. Anche questo procedimento è dannoso per l’ambiente: la melma radioattiva non viene smaltita e la soluzione di acido solforico rischia di contaminare le falde acquifere. Dopo l’estrazione, l’uranio è arricchito per essere utilizzato come combustibile.
L’isotopo U235 è presente in bassi quantitativi nell’uranio estratto; per innescare una reazione nucleare è necessario aumentare questa percentuale con una procedura chiamata “arricchimento” che lascia come scoria il fluoro radioattivo. L’intero ciclo della filiera nucleare distrugge circa quaranta chilometri quadrati di territorio per far funzionare un impianto da 1000 MW. Trovare una sistemazione sicura per le tonnellate di combustibile esausto che continua a emettere radiazioni è un altro grosso problema. Per una decina d’anni è stoccato in vasche di raffreddamento – chiamate piscine – all’interno delle centrali nucleari. Passato questo periodo, le scorie sono sistemate in speciali bidoni di rame e sotterrate nelle profondità di cave o ex miniere. Questa soluzione comporta diversi pericoli: crolli dei siti di stoccaggio dovuti all’erosione; possibile contaminazione delle falde acquifere; deterioramento dei contenitori che sprigionerebbe nuove particelle radioattive nell’ambiente. Non è facile trovare una destinazione finale per queste scorie. Gli Stati Uniti avevano individuato nelle Yucca Mountains una possibile discarica, ma uno studio durato ben venticinque anni ha stabilito che non è una soluzione affidabile nel lungo termine. I tedeschi sono stati costretti a recuperare le scorie sotterrate nelle ex miniere di Assen per problemi d’infiltrazioni e rischi di crolli.
Le radiazioni sono ovunque, anche nella città in cui viviamo, ma in misura talmente bassa da risultare innocue. Persino volare espone a una bassa irradiazione causata delle radiazioni cosmiche che colpiscono l’aereo. La radioattività è un processo naturale di rilascio dell’energia dovuto dal decadimento del nucleo negli atomi. Nelle centrali nucleari la fissione di atomi di uranio crea nuovi elementi radioattivi che non esistono in natura, come il plutonio utilizzato nelle bombe nucleari. Alcuni isotopi sono destinati a scomparire in brevissimo tempo, altri rimangono radioattivi per migliaia di anni.
Le radiazioni ionizzanti interagiscono profondamente con la materia e diventano pericolose quando sono abbastanza forti da scindere o modificare i tessuti degli esseri viventi. A causa del disastro di Chernobyl numerosi detriti radioattivi sono stati dispersi nell’ambiente, emettendo radiazioni in grado di legarsi nell’organismo di piante, animali e persone con terribili conseguenze per la salute. Le radiazioni ionizzanti si suddividono in tre principali particelle: alfa, beta e gamma.
- Particelle alfa: sono quelle più pesanti e potenti ma anche quelle più lente e con poca forza di penetrazione. Basta una qualsiasi superficie per fermarle.
- Particelle beta: viaggiano a velocità elevata e sono più piccole delle alfa. Hanno un potere di penetrazione maggiore, ma un foglio di alluminio basta per bloccarle. Sono pericolose se ingerite o inalate sotto forma di polvere.
- Particelle gamma: sono quelle che hanno più energia e un elevato potere penetrante. Viaggiano alla velocità della luce e per rallentarle servono spessi strati di piombo.
Una massiccia esposizione alle radiazioni ionizzanti procura la SAR – sindrome acuta da radiazioni – dove il soggetto irradiato presenta gravi e complessi sintomi, dovuti alla distruzione cellulare dell’organismo fino al sopraggiungere della morte.
Nel dicembre del 2019 ho visitato per la prima volta la zona di alienazione e la centrale nucleare di Chernobyl, conscio della pericolosità del luogo. Dopo il disastro di Chernobyl una vasta area dell’Ucraina, della Russia e Bielorussia fu contaminata da particelle beta, quelle più dannose per la salute. Oggi nella maggior parte dei luoghi all’interno della centrale e nella città abbandonata di Pripyat il livello di radiazioni oscilla mediamente da cinque a venti Usv/ora (microsievert per ora) quando il normale livello delle radiazioni nelle città va da 0,1 a 0,3 Usv/ora. Prendendo le dovute precauzioni e limitando la visita nella zona di esclusione a pochi giorni, il rischio per la salute rimane comunque basso.
Il drammatico percorso cronologico che portò al disastro di Chernobyl
Nell’impianto dei reattori RBMK 1000 quando s’interrompe l’afflusso di energia alla turbina, intervengono i generatori diesel d’emergenza per garantire alle pompe di mantenere costante il flusso d’acqua e continuare a raffreddare il reattore. Questi generatori impiegano dai quaranta secondi a un paio di minuti per entrare a pieno regime. Lo scopo del test che provocò il tragico disastro di Chernobyl era di scoprire se l’energia cinetica generata dall’inerzia delle turbine, riuscisse a produrre l’elettricità necessaria per far funzionare le pompe di raffreddamento finché non fosse subentrato il generatore diesel. Il test di sicurezza era programmato per il 25 aprile 1986. Dopo aver ridotto la potenza del reattore a 1600 MW termici e disattivato i sistemi di raffreddamento d’emergenza, alle ore 14:00 i tecnici interruppero la procedura. Il test fu rinviato al turno successivo dal responsabile del carico elettrico: serviva quanta più elettricità possibile per soddisfare le esigenze energetiche delle fabbriche ucraine che lavoravano a pieno regime. Gli operai dovevano rispettare le quote di produzione imposte dal regime in vista della festa del primo maggio.
Alle ore 23:10 il nuovo personale della sala controllo, che presumibilmente non era preparato come quello precedente, ricevette l’autorizzazione per procedere col test. I principali autori di questa tragedia furono:
- VIKTOR BRYUKHANOV – DIRETTORE DELL’IMPIANTO NUCLEARE DI CHERNOBYL. Tenuto all’oscuro dello svolgimento del test, fu dichiarato colpevole per gravi violazioni alla sicurezza della centrale e arrestato nell’agosto del 1986. Fu condannato a dieci anni di lavori forzati più altri cinque per abuso di potere.
- NIKOLAI FOMIN – CAPO INGEGNERE. Ordinò il test sul reattore numero quattro, ma quella notte non era presente alla centrale. Al momento dell’incidente dormiva nel suo appartamento a Pripyat. Condannato a dieci anni di lavori forzati fu rilasciato poco tempo dopo per un grave esaurimento nervoso durante il quale tentò anche il suicidio.
- ANATOLY DYATLOV – VICECAPO INGEGNERE DEI REATTORI TRE E QUATTRO. Era uno degli scienziati nucleari più esperti e rispettati dell’Unione Sovietica. Prima di questo incarico, Dyatlov dirigeva il laboratorio segreto 23: sovrintendeva alla costruzione e all’attivazione dei piccoli reattori VM installati nei sottomarini. Aveva una personalità molto forte e questo lo portava a essere troppo sicuro di se al punto da ignorare qualsiasi norma di sicurezza. Dyatlov è stato coinvolto assieme al figlio in un incidente nucleare nel laboratorio 23, dove venne esposto a una dose letale di radiazioni ma incredibilmente sopravvisse. Per il disastro di Chernobyl fu condannato a dieci anni di lavori forzati, scontandone solo quattro. Morì d’infarto nel 1995.
- ALEXANDER AKIMOV – CAPOTURNO DIRETTORE DELLA SALA CONTROLLO. E’ stato esposto a una dose letale di radiazioni e morirà dopo quindici giorni.
- LEONID TOPTUNOV – INGEGNERE CAPO. Fresco di nomina, non aveva mai pilotato un reattore durante un procedimento così delicato. Monitorava la potenza del reattore. E’ stato esposto a una dose letale di radiazioni e morirà diciotto giorni dopo.
- BORIS STOLYARCHUK – INGEGNERE CAPO. Addetto ai controlli di raffreddamento del reattore. E’ sopravvissuto all’incidente.
- VALERY KHODEMCHUK – OPERAIO SALA POMPE. E’ morto nell’esplosione del reattore; il suo corpo non fu mai ritrovato.
- VALERY PARAVACHENKO – OPERAIO SALA POMPE. E’ morto sei settimane dopo l’incidente per l’esposizione acuta alle radiazioni.
- BORIS SHCHERBINA – VICE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI E PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE CHERNOBYL. Fu incaricato di gestire il disastro di Chernobyl e indagare sulle cause dell’incidente. Inizialmente fornì ai dirigenti del governo stime sbagliate e troppo ottimistiche. Morì a Mosca il 22 agosto 1990.
Le direttive di Fomin erano chiare: il test andava svolto con una potenza del reattore fra i 1000 e i 700 MW termici ma Dyatlov ordinò di abbassare la potenza del reattore a soli 200 MW, un valore pericolosamente basso. A causa di alcuni errori operativi di Toptunov e dell’avvelenamento da gas Xeno 135 formatosi nel nucleo, la potenza del reattore calò ulteriormente mandandolo in blocco. Alle ore 24:28 del 26 aprile, Dyatlov ordinò di aumentare la potenza. Per riattivare il reattore fece estrarre quasi tutte le barre di controllo contro ogni buonsenso, arrivando a minacciare Toptunov per zittire le sue giustificate rimostranze. Le barre di controllo, dei cilindri di boro e grafite, sono l’unico strumento in grado di moderare la potenza del nucleo, composto da 1659 canali di combustibile all’uranio e più di 200 barre di controllo. La potenza massima di ogni canale è di tre MW termici. La scissione degli atomi di uranio rilascia un’enorme quantità di calore che trasforma l’acqua in vapore surriscaldato. Il vapore è poi incanalato attraverso grandi turbo generatori che producono elettricità.
Alle ore 1:00 il reattore riprese potenza rimanendo stabile a circa 200 MW con solo quarantasette barre di controllo inserite su 211. Stolyarchuk si accorse che il livello dell’acqua di refrigerazione era troppo alto per l’attuale potenza del reattore. Cercò di correggere la portata mentre il vapore alterava il delicato equilibrio del reattore. In un punto in cui i sensori non riuscirono a rilevare i dati, la potenza aumentò pericolosamente a causa del “coefficiente di vuoto positivo”: l’acqua di raffreddamento entra nei canali bollenti del combustibile trasformandosi in vapore. Il potere di reattività dell’uranio e il flusso di elettroni aumentano al pari del calore. La reazione a catena s’intensifica in un ciclo infinito a causa del nuovo vapore prodotto fino alla fusione del nocciolo. Nessuno in sala controllo si rese conto del reale stato del reattore diventato ormai instabile.
Alle ore 1:23 iniziò ufficialmente il test. Un operatore chiuse come da programma le valvole di scarico del vapore, rallentando la turbina e le pompe di ricircolo. Nella sala di controllo regnava una calma surreale mentre il reattore stava per entrare in stato super critico. Il test sembrò proseguire senza intoppi mentre Dyatlov, con una calma impassibile, impartiva ordini ai tecnici. Per terminare il test non rimaneva che spegnere il reattore.
Alle ore 1:23.40 AKIMOV, il supervisore del test, attivò il pulsante AZ-5 – rinominato A3-5 in russo – per avviare la procedura SCRAM (safety control rod axe man). E’ una procedura d’emergenza per l’arresto rapido del reattore che abbassa contemporaneamente tutte le barre di moderazione. Il test era concluso e le barre di controllo stavano spegnendo il reattore. L’azione di Akimov produsse però l’effetto contrario: le punte di grafite incandescente a contatto con l’acqua innalzarono di colpo la potenza nella parte inferiore del reattore, centinaia di volte più alta rispetto a quella nominale. La grafite, se sottoposta a un bombardamento di neutroni, accumula energia e può provocare un’inaspettata esplosione di calore. Questo e altri difetti divennero noti quando ormai diversi reattori RBMK erano già in funzione e porvi rimedio era anti economico. L’unica strada percorribile per il partito era di secretarli apportando ai reattori alcune modifiche minori e aggiornando i manuali di procedura con linee guida poco dettagliate. Nei secondi successivi la tensione dei tecnici si allentò ma la calma nella sala controllo fu interrotta bruscamente dalle numerose spie di allarme che si accesero di colpo una dopo l’altra. Akimov cercò di arginare l’emergenza liberando le barre di controllo dai loro attacchi per farle cadere lungo i canali, ma l’operazione non ebbe successo. Le barre di controllo erano bloccate nei condotti deformati dal calore. Il nocciolo del rettore stava fondendo.
VALERY PARAVACHENKO – l’operaio della sala pompe – osservava da una passerella rialzata lo scudo biologico del reattore quattro: i pesanti tappi che chiudono i canali del combustibile iniziarono a saltare mentre una scossa attraversa l’edificio. Il 26 aprile 1986 ore 1:23.45 improvvisamente avvenne l’inimmaginabile. Due potenti esplosioni consecutive causarono il disastro di Chernobyl, classificato al massimo livello sette come incidente catastrofico sulla scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale). La prima esplosione fu causata dall’eccessiva pressione del vapore che scaraventò per aria lo scudo biologico pesante duemila tonnellate, facendolo poi ricadere sul reattore. Pochi secondi dopo avvenne la seconda esplosione, quella più devastante, provocata dalla grafite incandescente che infiammò l’idrogeno presente nell’acqua di raffreddamento e nell’aria. Nella sala controllo numero quattro, i tecnici disorientati pensarono a un danno superficiale e rimasero frastornati ai loro posti.
Dyatlov cercò invano di capire cosa stesse succedendo leggendo i valori nei vari indicatori e alla fine inviò due operai per controllare lo stato della sala del reattore e spostare le barre di controllo manualmente. Intanto la nube radioattiva iniziò a contaminare la centrale e i suoi lavoratori. Raggiunta a fatica la sala del reattore, i due operai fissarono inorriditi la scena come se si fossero spalancate le porte dell’inferno: l’edificio era distrutto e chiaramente il reattore era esposto e senza protezione. Quella vista raccapricciante costò la vita a entrambi perché assorbirono in poco tempo una dose letale di radiazioni. Il buio della notte era spezzato dal chiarore dei numerosi incendi divampati nel blocco quattro, con detriti radioattivi sparsi ovunque attorno alla centrale.
Alle ore 1:28 arrivarono i primi pompieri che, ignari del pericolo, combatterono contro il fuoco senza alcun tipo di protezione. Il loro estremo sacrificio ha evitato che gli incendi si propagassero ai restanti reattori, aumentando la portata del disastro. Camminarono sui detriti e sul combustile radioattivo, andando incontro a un orribile destino di sofferenza e dolore. Alle cinque del mattino i tecnici avviarono lo spegnimento progressivo di tutti i reattori. L’incendio alimentato dalla grafite durò dieci giorni, impegnando 250 vigili del fuoco. Quelli che presentarono gravi sintomi da avvelenamento furono immediatamente portati prima all’ospedale nella città di Chernobyl, poi trasferiti a Mosca per via dell’esposizione acuta alle radiazioni. Nonostante il sacrificio dei pompieri per i successivi dieci giorni la nube continuò a rilasciare nell’aria iodio, cesio e plutonio.
Viktor Bryukhanov fu convocato d’urgenza e raggiunse la centrale in meno di un’ora. I danni erano ben visibili, l’edificio del reattore quattro era un cumulo di macerie. La preoccupazione del direttore salì rapidamente nonostante le rassicurazioni ricevute da Dyatlov e Akimov. Per prima cosa Bryukhanov ordinò l’apertura del bunker antiatomico nei sotterranei della centrale, da dove poteva gestire l’emergenza in totale sicurezza. Ben presto la stanza si riempì di tecnici, dirigenti e militari. Mezz’ora dopo Bryukhanov avvertì il vice segretario dell’industria nucleare, la Rosenergoatom, e poi iniziò il frenetico giro di telefonate fra i vari esponenti del Politburo, l’organo dirigente del partito comunista. Nessuno in quel bunker riuscì a comprendere la portata dell’incidente, riluttanti ad accettare l’evidenza. La mancanza di strumenti adeguati per la misurazione dell’esatto livello di radioattività ha contribuito in maniera decisiva a sottovalutare la pericolosità dell’accaduto. I comunicati inviati dal bunker spiegavano che l’unità quattro era fuori servizio ma che la situazione era sotto controllo.
Uno degli operatori inviato da Dyatlov fece ritorno alla sala controllo per avvisarlo della distruzione del reattore. Il vice capo ingegnere forte della sua esperienza e della sua incrollabile fede non volle crederci e scese lui stesso nel cuore della centrale per cercare prove di eventuali guasti. Dyatlov incrociò nei corridoi dei tecnici con evidenti sintomi da avvelenamento da radiazioni e vide con i propri occhi l’edificio crollato. Alle 5:00 del mattino Dyatlov raggiunse a fatica Bryukhanov dentro il bunker. La sua mente razionale da scienziato, annebbiata dalle radiazioni, ancora non riusciva a elaborare l’accaduto: il reattore numero quattro non esisteva più. Al suo posto c’era un magma radioattivo impossibile da spegnere.
Alle ore 8:00 del mattino furono prelevati dei campioni fra i detriti radioattivi. I tecnici rilevarono frammenti di combustibile e grafite. Finalmente Bryukhanov si arrese all’evidenza dei fatti. Alle 9:00 il ministro dell’energia fu aggiornato sulla vera entità del disastro di Chernobyl, diramando un rapporto sensibilmente più preoccupante dei precedenti. I membri del Politburo decisero formare una commissione governativa capitanata dal vice primo ministro Boris Shcherbina.
Sabato 26 aprile 1986 i cittadini di Pripyat si stavano godendo una bella giornata di sole in tarda primavera, aspettando la festa del primo maggio, totalmente ignari del disastro appena successo. Arrivarono i primi militari equipaggiati con mascherine lepenstok – petalo, erano dei respiratori progettati in Russia per filtrare le particelle radioattive nell’aria – e solo allora gli abitanti dell’atomgrad iniziarono ad avere i primi sospetti. Nel tardo pomeriggio fu recapitato a Mikhail Gorbachev, il nuovo segretario generale del PCUS, un rapporto che descriveva l’incidente: il testo era vago e rassicurante e non faceva riferimento a nessuna catastrofe nucleare.
Alle ore 19:20 Boris Shcherbina e Valerij Legasov, un noto chimico sovietico, atterrarono a Kiev per dirigersi verso la centrale. Al suo arrivo Shcherbina fu subito aggiornato sulla disperata condizione del reattore quattro. Prese la decisione di isolare la città di Pripyat ma di non evacuarla. Negò anche la possibilità di avvisare la popolazione sull’incidente nucleare: la paura di scatenare un’ondata di panico era troppo alta. Shcherbina sapeva che l’evacuazione di un’intera città con 50.000 persone non sarebbe certo passata inosservata. Fra gli abitanti di Pripyat si diffuse la voce di un grave incidente alla centrale nucleare: gli altoparlanti erano muti – di solito erano sempre accesi per dispensare la propaganda in ogni angolo della città – e le linee telefoniche non funzionavano.
Domenica 27 aprile Legasov era già al lavoro per capire come risolvere i numerosi problemi dell’unità quattro e impedire una nuova reazione nucleare nel nocciolo fuso. Nel frattempo si cercò di raffreddare il reattore con l’acqua ma l’operazione produsse una nuova dispersione di radiazioni. Dopo aver visto con i propri occhi la devastazione del blocco quattro, alle ore 10:00 di domenica mattina Boris Shcherbina finalmente ordinò l’evacuazione di Pripyat. I livelli di radioattività al suolo aumentavano in maniera preoccupante. Alle 13:00 gli altoparlanti annunciarono ai cittadini che sarebbero stati evacuati a causa di un guasto alla centrale. Il comunicato era vago e i militari assicurarono agli abitanti di Pripyat che si trattava di una soluzione temporanea, raccomandando di portare con sé solo il minimo indispensabile per i pochi giorni di allontanamento. Nessuno accennò al disastro di Chernobyl.
Alle 14:00 iniziò l’evacuazione che terminò in appena tre ore e mezzo. Più di 50.000 fra uomini, donne e bambini furono esposti alle radiazioni per trentasei ore a causa dell’incapacità del governo nell’affrontare l’emergenza. Furono necessari più di centomila autobus per portare via tutte le persone stremate dall’attesa. Tutto avvenne con molta calma, nessuno si fece prendere dal panico: erano troppi i dubbi e le incertezze sul futuro che li attendeva. In poco tempo la città modello orgoglio di Bryukhanov divenne una città fantasma. Legasov assieme a un team di fisici nucleari lavorava senza sosta per arginare la fuoriuscita di radiazioni e raffreddare il nocciolo fuso. Si pensò di coprirlo con tonnellate di piombo, dolomite e argilla, tutti materiali difficilmente reperibili all’interno dell’Unione Sovietica. Shcherbina e Legasov li sostituirono con il boro e la sabbia da sganciare sopra il reattore con gli elicotteri.
La mattina del 28 aprile la nube radioattiva raggiunse l’Europa. La Svezia, dopo aver verificato il corretto funzionamento delle sue centrali, fu la prima a lanciare l’allarme. Gli isotopi radioattivi rilevati dai campioni erano compatibili con la fusione di un reattore nucleare col nocciolo esposto all’aria. Agli scienziati svedesi apparve chiaro che la causa degli alti livelli di radioattività proveniva da lontano: studiando l’andamento dei venti individuarono l’Ucraina come possibile punto d’origine. A poco servirono gli sforzi delle autorità russe e del KGB per mantenere segreto l’incidente. A Mosca durante una riunione d’emergenza, per la prima volta Gorbachev fu informato sulla reale situazione del disastro di Chernobyl. All’inizio il governo russo negò categoricamente di essere a conoscenza di qualsiasi incidente nucleare avvenuto sul proprio territorio. Solo in tarda serata un portavoce del governo rilasciò un breve comunicato su un non meglio precisato incidente nucleare, minimizzandone la portata. Così fece anche la stampa il giorno successivo.
Il 29 aprile, durante un’altra riunione straordinaria del Politburo, fu chiaro a tutti che la nube radioattiva avrebbe ricoperto gran parte dell’Europa. Fu nominata una speciale commissione col compito di sigillare il reattore e fermare la dispersione di radionuclidi. Dopo un altro comunicato ufficiale del Cremlino e con le voci non confermate sull’incidente che iniziarono a trapelare, le maggiori testate giornalistiche americane pubblicarono la notizia di un devastante incidente nucleare avvenuto in Ucraina. Con la nube radioattiva che stava contaminando gran parte dell’Europa, i governi si rivolsero a Mosca con note di protesta sulla mancata diffusione d’informazioni dettagliate. Gli ambasciatori russi in tutta risposta chiesero consigli su come combattere la catastrofe nucleare. Il panico si diffuse in tutta Europa con le farmacie e i negozi di prima necessità presi d’assalto. Nel frattempo a Chernobyl gli sforzi compiuti dagli elicotteristi per rovesciare sul reattore sabbia e boro, iniziarono ad avere successo. La temperatura era in calo così come il livello delle radiazioni. S’iniziò a parlare per la prima volta di Osobaya zona, una zona speciale contaminata dai detriti e dalla ricaduta di radiazioni.
Mercoledì 30 aprile, alla vigilia della celebrazione del primo maggio, i venti radioattivi raggiunsero Kiev con valori centinaia di volte superiori alla norma. Giovedì 1 maggio su ordine diretto di Gorbachev fu avviata la parata nonostante il pericolo per i cittadini. I venti cambiarono nuovamente direzione spirando verso Mosca, ma la capitale fu risparmiata. Purtroppo centinaia di chilometri di terreno agricolo in Bielorussia furono compromessi dalla pioggia radioattiva.
A Chernobyl una nuova commissione di funzionari constatò che la contaminazione si estendeva ben oltre la zona speciale, arrivando fino a trenta chilometri dalla centrale. Fu ufficialmente istituita la zona di alienazione: tutti gli abitanti all’interno di quest’area furono evacuati. Il carosello degli elicotteri continuò a riversare tonnellate di materiale sul reattore. Nessuno aveva una vaga idea dello stato del nocciolo: la radioattività e il calore aumentarono inspiegabilmente e col passare dei giorni il pericolo di una fusione totale era sempre più reale.
Il 2 maggio la nube raggiunse l’Italia e qualche giorno dopo cadde pioggia radioattiva sul Giappone, Alaska e Stati Uniti. Il presidente Gorbachev stava perdendo il controllo della situazione per colpa della segretezza che ammantava il disastro di Chernobyl: un controllo effimero che proteggeva l’Unione Sovietica esposta alle critiche del resto del mondo. A Kiev dilagava il panico: le voci su una nuova e imminente esplosione nucleare erano ormai incontrollabili. L’acqua nelle vasche sotto il reattore fu rimossa e un gruppo di operai scavò una galleria per raffreddare con l’azoto liquido la base per impedire al corium – una lava radioattiva artificiale formata da diossido di uranio, piombo e zirconio – di penetrare nelle falde acquifere. I livelli di radioattività e calore iniziarono gradualmente a diminuire.
Dopo il disastro di Chernobyl
L’operazione di bonifica coinvolse 600.000 persone, i liquidatori, che assorbirono un’alta dose di radiazioni. I liquidatori – liquidatsija o bio robot – erano mal equipaggiati ma il governo sovietico non esitò a sacrificare migliaia di persone per impedire il diffondersi della radioattività. Dietro le promesse di aumenti di salario e numerosi benefit, in realtà si nascondeva la minaccia di essere additati come traditori in caso di rifiuto. La maggior parte di loro nemmeno conosceva i pericoli a cui andava incontro. Liquidare significava ripulire la zona dalle radiazioni: un’impresa impossibile perché non c’è modo di eliminare le particelle radioattive. Gli scienziati testarono ogni prodotto possibile per bloccare la polvere radioattiva che ricopriva la zona di alienazione. Lo sforzo fu inutile: ogni folata di vento riportava le particelle radioattive nelle zone già ripulite. Si decise infine di abbattere e sotterrare edifici e alberi troppo contaminati. Ai liquidatori e alle loro famiglie rimase una semplice medaglia in ricordo dell’immane sacrificio compiuto per salvare l’Europa dal disastro di Chernobyl.
Il reattore esploso fu sigillato in sette mesi dentro un sarcofago per bloccare la fuoriuscita d’isotopi radioattivi nell’aria; il tetro mausoleo fu ufficialmente inaugurato il 30 novembre 1986, un trionfo di arte brutalista in cemento e acciaio. Col passare degli anni questa tomba spettrale è diventata pericolosamente instabile: le radiazioni hanno consumato il rivestimento dall’interno mentre gli agenti atmosferici hanno indebolito la struttura dall’esterno, agevolati dai numerosi difetti di costruzione causati dall’assemblaggio frettoloso. Il rischio di crollo del sarcofago e di un’altra catastrofe radioattiva era troppo alto.
Con un enorme sforzo finanziario che ha coinvolto numerosi paesi, è stato progettato e costruito il nuovo sistema di contenimento (NSC – New Safe Confinement) per prevenire un nuovo disastro di Chernobyl. Gli esperti ritengono che la nuova protezione d’acciaio, chiamata anche Arco per la sua particolare struttura, sia in grado di resistere per altri cento anni: il tempo necessario per smantellare definitivamente la centrale di Chernobyl. L’imponente struttura alta più di cento metri è stata completata e sistemata sul reattore quattro alla fine del 2019. Nonostante la grave contaminazione dell’impianto la centrale è rimasta in funzione fino a quando l’ultimo reattore, il numero tre, è stato spento il 15 dicembre del 2000 utilizzando l’interruttore AZ-5.
L’organizzazione di volontariato per la solidarietà MONDO IN CAMMINO (MIC) fin dalla sua nascita, ha rivolto l’attenzione soprattutto nella zona post sovietica a favore delle vittime del disastro di Chernobyl. Sostieni Mondo in Cammino diventando socio o semplicemente facendo una piccola donazione. Inoltre potete sostenere l’associazione DOGS OF CHERNOBYL – Clean Futures Fund che gestisce la popolazione di cani randagi all’interno della zona di alienazione.