La tragedia del disastro di Chernobyl e la città fantasma di Pripyat. Memorie da un viaggio nel cuore della zona di alienazione.
Visitare la centrale nucleare di Chernobyl e la città abbandonata di Pripyat è come ricevere un pugno nello stomaco quando meno te lo aspetti. Mi guardo attorno spaesato chiedendomi dive sono finito. Sagome surreali di edifici vuoti mi circondano con tutta la loro tragica agonia. Sembra di essere intrappolato fra le pagine di un libro di fantascienza a sfondo apocalittico. Sono in un luogo mortale ma che incredibilmente ospita ancora la vita. Non posso crederci: finalmente ho varcato la soglia della zona di alienazione e non credo che me né pentirò mai. Questo viaggio mi ha regalato un turbinio di emozioni che difficilmente proverò ancora con tanta intensità. Pianificare una visita di cinque giorni nella zona non è come prenotare una vacanza ai Caraibi. Bisogna essere veramente motivati e pronti ad accogliere tutti gli stimoli che ci travolgeranno con forza e prepotenza.
L’incidente al reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl è stato uno degli eventi più nefasti degli ultimi anni. Quello che successe in quella fatidica notte fra il 25 e il 26 aprile 1986 segnò il destino dell’Unione Sovietica. Durante questi trentatré anni dal disastro, sono stati scritti centinaia di articoli che trattano la vicenda nei più piccoli dettagli, complotti compresi. Persino la HBO nel 2019 ha girato una mini serie di sei puntate, peraltro molto ben realizzata. Ho approfondito meglio le dinamiche dell’incidente nell’articolo “Il disastro di Chernobyl, gli eventi che portarono al tragico incidente” dedicato alla visita nel cuore della centrale nucleare di Chernobyl.
Per dare una motivazione alla genesi di questo questo viaggio bisogna tornare indietro nel tempo, partendo dalla mia infanzia. All’epoca dell’incidente ero un bambino undicenne come tanti altri. Nonostante la mia giovane età, il ricordo di quella tragedia raccontata con preoccupazione da tutti i telegiornali rimase bene impressa nella mia mente. Così come quei terribili filmati apparsi in televisione qualche giorno dopo il disastro, che mostravano il tetto del reattore numero quattro completamente distrutto. I miei genitori si ritrovarono nella difficile situazione di spiegare a un ragazzino troppo curioso cosa fossero le radiazioni. Avete presente quella strana sensazione di inquietudine? Io l’ho vissuta personalmente perché quell’evento mi rimase impresso in maniera indelebile. Come poteva una cosa così aleatoria e invisibile causare tanto male?
Col tempo ho iniziato a documentarmi meglio sull’incidente di Chernobyl, sulla sorte di Pripyat e sull’energia nucleare. La terminologia tecnica, troppo difficile da assimilare per un ragazzino, crescendo mi è apparsa più chiara e ho preso sempre più confidenza con l’argomento. L’idea di vedere con i miei occhi e comprendere tutta quella devastazione causata dall’uomo è diventata un chiodo fisso. Questo è il motivo che mi ha spinto a visitare e conoscere la zona di alienazione. La città abbandonata di Pripyat è una meta ambita per chi pratica urbex. L’euforia di ottenere immagini spettacolari del “fantasma comunista” ormai in rovina spesso offusca il ricordo della tragedia, riducendo il tutto al solito mordi e fuggi frenetico che i tempi moderni c’impongono. Proprio per questo motivo non ho mai partecipato a tour di pochi giorni. Non c’è il tempo di capire cosa si sta fotografando e non si riesce a dare spazio alle emozioni.
C’è un momento preciso, un attimo, che insinua nella testa un’idea. E’ come il seme di una pianta che cresce lentamente per anni e ti martella come un tormento. Le notizie invecchiano, passano in secondo piano e finiscono nel dimenticatoio. Per me non è stato così. Talvolta più ci si prefigge un obiettivo, più questo sembra allontanarsi. Il tempo passa velocemente ma la volontà di visitare la zona di alienazione è sempre stata ben salda. Quando finalmente si è presentata l’occasione di poter rimanere cinque giorni interi dentro la zona, grazie a un viaggio organizzato da Pierpaolo Mittica, ho capito che era arrivato il momento giusto. Non è stato un capriccio per dire “io ci sono stato” o la voglia di protagonismo da sfoggiare con amici e parenti. E’ un sentimento profondo quello che mi ha spinto a intraprendere questo viaggio e, nonostante mi fossi documentato il più possibile durante tutti questi anni, non sapevo davvero cosa aspettarmi una volta arrivato sul posto. Nell’era del social network e della rivoluzione digitale tutto è istantaneo e multimediale. Basta uno smartphone e chiunque può vedere qualsiasi cosa in ogni parte del mondo. Essere fisicamente presente in questo luogo di dolore è però tutta un’altra storia, scatena un ricettacolo di emozioni difficilmente descrivibile attraverso le immagini o le parole.
Il giorno della partenza e l’arrivo a Kiev
Finalmente arriva il giorno della partenza. Il mio volo decolla da Bologna diretto per l’aeroporto Zhulhany a Kiev con la compagnia italiana a basso costo Ernest Airlines. All’andata il volo parte con due ore di ritardo, al ritorno saranno quattro. Un ragazzo del nostro gruppo si è visto cancellare il volo di ritorno in piena notte. Gli Airbus A320 sembrano recenti e ben tenuti ma non penso che utilizzerò nuovamente questa compagnia. E’ troppo inaffidabile. Atterro a Kiev giusto in tempo per cambiare cinquanta euro in grivnia (la valuta locale) e acquistare una scheda SIM Kyivstar che utilizzerò per tutto il tempo. Wind, l’operatore che uso in Italia, non ha appoggi in Ucraina e avrei speso cifre folli anche solo per mandare un messaggio. AGGIORNAMENTO: il 30 dicembre 2019 ENAC ha emanato un provvedimento per revocare la licenza di volo di Ernest Airlines dal 13 gennaio 2020.
Trovo un tassista che approfittando dell’ora tarda fa la cresta sul prezzo della corsa. Non obietto e accetto di buon grado, sono stanco e in ritardo. L’unica cosa che voglio è arrivare in hotel all’appuntamento con i miei compagni di viaggio. Dopo mezz’ora di macchina arrivo al Tourist Hotel Complex, un grande albergo alto 24 piani situato in un quartiere tranquillo e a pochi passi dalla fermata della metro. Entro nella hall e guardo fra i tavoli del bar. Vedo Pierpaolo, l’organizzatore del viaggio e nostro mentore in questi cinque giorni, che mi viene incontro sorridente. Dopo mesi di messaggi è bello conoscersi di persona e dare un volto a un’amicizia digitale! Ho giusto il tempo di presentarmi ai miei nuovi compagni (Juliane, Silvia, Stefano e Valentina) e di lasciare in camera i bagagli, poi tutti a cena in un ristorante tipico vicino all’albergo. Mi rilasso e mi lascio prendere subito dall’euforia provando il borscht, una tipica zuppa ucraina a base di barbabietola. La cena scorre piacevole, fra battute e risate, mentre cerchiamo tutti di conoscerci meglio.
Rientrato in albergo, guardo meglio la camera piccola e spartana, dal sapore puramente sovietico. Mentre ammiro il panorama che spazia su tutta Kiev dal diciottesimo piano, mi vengono i primi dubbi pensando che domani entrerò nella zona di alienazione di Chernobyl. Affronterò i fantasmi che per molto tempo mi hanno spaventato: il nucleare e le radiazioni. Vado a letto con quel senso d’inquietudine che inizia a riaffiorare e col sonno che tarda ad arrivare.
Giorno 1 – In viaggio verso Chernobyl e il camping estivo abbandonato
La mattina seguente, dopo una bella colazione, come da programma troviamo le nostre guide Yuri e Alexander davanti all’albergo. Dopo esserci presentati (Pierpaolo conosce Yuri già da molti anni) carichiamo le valigie nei mini van e finalmente partiamo verso la città di Chernobyl. Il viaggio verso la zona di alienazione parte da Kiev e dura due ore. Arriviamo al primo checkpoint Dyatky, dove riceviamo un dosimetro a testa per tenere traccia delle radiazioni assorbite e il visto d’entrata per l’area contaminata dopo un veloce controllo passaporti. Detta così sembra facile ma documenti, richieste di permesso, targhe e nomi devono essere dichiarati per tempo seguendo una complessa procedura burocratica. La zona di alienazione è un’area militare compresa nel raggio di trenta chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl e il suo ingresso è strettamente regolato dal governo ucraino. Dopo trentatré anni dall’incidente al reattore numero quattro sono davanti al primo posto di blocco per varcare la fatidica soglia, quella linea immaginaria che divide la vita dalla morte. Mentre aspetto il mio turno scatto qualche foto e osservo il via vai degli autobus che portano i lavoratori alla centrale.
La discarica di automezzi contaminati vicino Rozsocha
Sbrigate tutte le formalità ripartiamo in direzione della discarica di mezzi contaminati vicino Rozsocha. La gestione dell’emergenza di Chernobyl ha coinvolto migliaia di veicoli oltre che persone. A causa dell’alto livello di contaminazione questi mezzi sono stati dismessi e abbandonati in varie discariche disseminate all’interno della zona. La discarica più famosa è quella di Rozsocha ma purtroppo non esiste più. Parte dei macchinari è stata sepolta, quello che rimaneva è stato spostato in altri punti o rubato. Scendiamo indossando subito la mascherina di protezione classe FFP3 contro le polveri. Carcasse deformate di automezzi giacciono immobili e quasi irriconoscibili come scheletri accatastati nel piazzale. E’ una bella mattinata invernale. Il sole illumina la rimessa creando contrasti interessanti che si contrappongono alle zone d’ombra ancora ricoperte di brina. Resti di camion sovietici ZiL-130 sono sparsi ovunque, ridotti a un ammasso di lamiere, sportelli e cofani.
Dopo questa prima sessione fotografica per prendere confidenza col luogo, ci dirigiamo verso il Desiatka hotel di Chernobyl solo per scaricare i bagagli e ripartire subito. Ci attende il pranzo nella mensa della centrale nucleare. Il viaggio è breve, tutti rimaniamo in silenzio aspettando il fatidico momento. Percorrendo la strada che costeggia la famosa foresta rossa, il contatore geiger inizia a crepitare anche dentro il mini van. Mi vengono i brividi, siamo vicini al mostro. Poco dopo l’origine del male si mostra in tutta la sua imponenza, col nuovo brillante sarcofago che al suo interno nasconde gli orrori della follia umana.
Rimango senza fiato mentre mi avvicino a piedi al monumento in pietra dedicato ai liquidatori proprio davanti al blocco del reattore quattro. Raffigura due mani che racchiudono il vecchio sarcofago. Ai piedi del monumento c’è una targa dedicata “Agli eroi che hanno protetto il mondo da un disastro nucleare. In onore del ventesimo anniversario dalla costruzione dello scudo“. Qualche turista scatta le solite foto di rito al contatore geiger o ne approfitta per scattare il selfie tanto atteso. Dopo la costruzione del nuovo sistema di contenimento, il livello delle radiazioni attorno all’impianto è notevolmente calato. Ancora non ci credo. Sono davanti alla centrale nucleare di Chernobyl e mai come in quel momento ho percepito il richiamo del suo macabro fascino, attirato come una falena verso una luce potente.
All’ingresso della mensa c’è un piccolo negozio di souvenir. Per entrare e uscire è obbligatorio sottoporsi al controllo della contaminazione radioattiva attraverso uno scanner. La sala mensa al piano superiore è molto luminosa e spartana. Dopo aver fatto la fila al grande self service, occupiamo uno dei tanti tavoli liberi e iniziamo a mangiare assieme agli operai della centrale in un’atmosfera un po’ surreale. L’aspetto del cibo a prima vista non è molto invitante. Approfitto della pausa per rilassarmi e fare quattro chiacchiere con i miei compagni. Ho già capito che i ritmi saranno veloci nonostante i cinque giorni a disposizione. Il cibo proviene tutto dall’esterno della zona di alienazione e arriva fresco ogni giorno da Kiev e dintorni. Mentre guardo il pranzo qualche dubbio rimane. Prendo coraggio e inizio assaggiando il borscht. Non sento alcun sapore strano, tutto sembra normale. Distratto dalla conversazione su quello che ci aspetta nei prossimi giorni, senza rendermi conto finisco il pranzo. Scendo al negozio di souvenir per prendere un caffè che definire cattivo è fargli un complimento. Altri dieci minuti fuori nel piazzale a fare amicizia con i cani randagi, una presenza costante all’interno della zona, poi si parte per raggiungere Camp Emerald.
Camp Emerald, il campeggio estivo per bambini
Il campeggio estivo “Smaragd“ (smeraldo), conosciuto anche come Camp Emerald, è nascosto nella fitta foresta fra Chernobyl e Pripyat. Imbocchiamo una stretta strada sterrata che corre parallela a quella principale. Un tronco di pino sbarra la strada, quindi proseguiamo a piedi dopo aver indossato nuovamente le mascherine. Ci inoltriamo nella foresta nel più assoluto silenzio. In un bosco del genere mi aspetterei di sentire almeno il cinguettio degli uccelli e invece nulla, nessun rumore. Vedo fra la vegetazione le prime casette colorate. Mi guardo attorno stranito: è un grande campeggio estivo per bambini abbandonato dai tempi dell’incidente. Le case decorate con i personaggi di fiabe e cartoni animati spuntano fra gli alberi come grandi funghi colorati. Ci dividiamo e iniziamo a fotografare in questa pace assoluta, disturbati solo dall’incessante ticchettio del contatore geiger di Pierpaolo.
Rientriamo in hotel col sole ormai tramontato. Riprendiamo i bagagli e ci sistemiamo nelle camere. La struttura è molto spartana, l’interno è decorato in legno, pitturato con i colori che ricordano le betulle. Io sono in camera doppia con Stefano, un ragazzo tranquillo e simpatico. Tutto quello che ha, occupa le dimensioni di uno zaino da trekking. Sono sempre affascinato dal viaggiatore zaino in spalla e dalla sua capacità di valutare le cose veramente utili da portare lasciando a casa tutto il superfluo. Io, al contrario, mi porto dietro sempre più del necessario. Da questo punto di vista ho ancora molto da imparare. Il tempo di una doccia calda mentre scarico le prime foto nel MacBook Air e il gruppo si riunisce nel piccolo ma confortevole ristorante dell’albergo. L’atmosfera al nostro tavolo è gioviale. Mentre pranziamo, abbiamo modo di confrontarci su quanto appreso durante la giornata. Finiamo la serata guardando le foto di tutti, con Pierpaolo che dispensa consigli su come migliorare i nostri scatti. Si è fatto tardi e domattina ci aspetta Pripyat. Non c’è da stupirsi se faccio fatica a dormire, in preda a una sensazione di ansia e inquietudine.
Aggiornamento su Camp Emerald
Aprile 2020: numerosi incendi hanno devastato con allarmante velocità la zona di alienazione, cancellando per sempre importanti testimonianze. Purtroppo Camp Emerald non esiste più, è stato divorato dalle fiamme scatenate dall’incendio doloso.
Giorno 2 – In giro per la città fantasma di Pripyat
La colazione è abbondante, mi riempio di uova, frittelle e succo alla fragola. Ho bisogno di energia perché oggi per la prima volta visiterò la città abbandonata di Pripyat. Yuri e Alexander ci aspettano fuori, assieme a un piccolo gruppo di cani randagi, teneri e giocherelloni. Partiamo per raggiungere il secondo checkpoint, quello degli ultimi dieci chilometri nella zona più contaminata. Sta per arrivare il momento che tanto aspettavo che tanto aspettavo e con esso anche i primi veri dubbi. Inizio a chiedermi se ho fatto un errore entrando in una delle zone più pericolose del pianeta. Il rischio vale quest’esperienza? Facciamo l’ultima breve sosta per fotografare la famosa insegna bianca “Pripyat 1970“. Nell’anno 1970 il governo sovietico decise di costruire per i lavoratori della centrale la città di Pripyat, in questa zona paludosa sulla riva destra del fiume che porta il suo stesso nome.
Durante il viaggio verso l’epicentro del disastro, noto sempre più edifici e fattorie abbandonate. Molti villaggi con le case di legno sono stati demoliti e sotterrati perché troppo contaminati. Quei pochi rimasti sono ormai del tutto inagibili e invasi dalla vegetazione. In poco tempo arriviamo all’ingresso di Pripyat dove ci attende l’ennesimo checkpoint. “Ecco la città morta” borbotta qualcuno. Yuri va a parlare con la guardia dentro il prefabbricato e noi scendiamo tutti dal van. E’ l’ultima occasione per fumare una sigaretta, bere o mangiare perché all’interno della città è proibito. Mentre fotografo il checkpoint arrivano gli immancabili cani. Per un attimo scorgiamo una figura che si staglia sul tetto di un edificio vicino. E’ uno stalker (uno dei numerosi ragazzi che entrano illegalmente nella zona) o abbiamo avuto una visione collettiva dovuta alle radiazioni? Yuri ci rassicura spiegandoci che è una guardia che controlla la città dall’alto.
La decadenza di Pripyat
Arriva un militare con fare stanco che alza la sbarra. Percorriamo lentamente quella che una volta era la via principale dedicata a Lenin per entrare in città. Alexander parcheggia alla fine della strada che sbuca nella piazza principale. Scendiamo tutti e indossiamo le provvidenziali mascherine contro le polveri. Finalmente sono nel centro di Pripyat davanti al Palazzo della Cultura e l’Hotel Polissya. Il cuore inizia a battere come un tamburo, mentre l’agitazione sale. Mi trovo in questo luogo fuori dal tempo, rimasto in un oblio lungo trentatré anni dall’incidente nucleare di Chernobyl. Non inizio subito a scattare foto, mi sento smarrito. La città è silenziosa, un silenzio quasi assordante che non trasmette serenità. Immagino le strade piene di persone incuriosite dalla presenza dei militari. Inizia tutto col suono dell’allarme e l’annuncio dell’evacuazione. Poi di nuovo il silenzio che solo la disperazione di un’immane tragedia può provocare. Ho sempre creduto nell’importanza d’immergermi nei luoghi che visito e lasciarmi trasportare dall’atmosfera, entrare nello stato d’animo adatto a comprendere e riflettere sugli eventi che mi circondano. Ritrovarsi catapultati nel cuore del peggior disastro nucleare che ha sconvolto l’intera Europa, non è così facile come credevo. I pensieri si affollano nella testa disordinatamente, sono troppo emozionato.
La moderna e vivace città di Pripyat fu costruita a meno di due chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl per ospitare i suoi lavoratori e le loro famiglie. Abitare qui era considerato un privilegio. Gli stipendi erano alti e i negozi erano sempre ben riforniti, con articoli che spesso era difficile trovare nel resto dell’Unione Sovietica. C’erano una ventina di strutture fra scuole e asili, un cinema e luoghi di svago come caffetterie e giardini pubblici. Era un’isola felice, quasi un’utopia pensando alle dure restrizioni che imponeva il partito. La vicinanza alla centrale e l’andamento dei venti di quella tragica notte furono la sua condanna. Il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:45 Pripyat fu investita in pieno dalla nube radioattiva sprigionata dall’esplosione del reattore numero quattro. Dalle foto che circolano su internet non è possibile rendersi conto della reale devastazione che ha subito questa città, un caos inimmaginabile. E’ dura immedesimarsi in questa situazione di pericolo incombente e invisibile, reso reale solo dal rumore del contatore geiger.
Penso alla popolazione esposta volutamente alle radiazioni per colpa di mezze verità e inganni del regime, evacuata solo dopo trentasei ore dal disastro. Mi vengono i brividi. Vedo sfilare ordinate colonne di fantasmi dal volto impaurito e rassegnato, con la consapevolezza di lasciare solo per pochi giorni le loro case. Invece stanno lasciando le loro vite a mani vuote, trascinandosi a fatica verso un futuro incerto. Sono disorientato, perso nei miei pensieri mentre cerco d’immaginare Pripyat piena di vita e non questa città dannata che ho davanti. L’onda d’urto di disperazione e dolore che trasuda da questo luogo mi colpisce in pieno, schiacciandomi e togliendomi il respiro. Il turbinio di emozioni dura pochi minuti ma sembra passata un’eternità. E’ tutto talmente intenso che quasi non riesco a sentire la voce di Pierpaolo. Iniziamo a esplorare la città e mi ritrovo finalmente ad aggirarmi per Pripyat, rapito da tanta decadenza. Prendo confidenza iniziando a fotografare nei pressi del Palazzo della Cultura. Il cielo plumbeo contribuisce a rendere ancora più malinconico il paesaggio urbano. Distrattamente appoggio a terra lo zaino per prendere le batterie di scorta e subito Yuri mi sgrida bonariamente. E’ meglio non appoggiare nulla a terra, un avvertimento che terrò bene a mente nei prossimi giorni.
Mi dirigo verso quella che è considerata il simbolo di Pripyat e Chernobyl: la ruota panoramica nel parco divertimenti. Fa uno strano effetto vedere con i propri occhi qualcosa di così tanto familiare, immortalato in migliaia di fotografie. La ruota panoramica non fu mai ufficialmente utilizzata perché doveva essere inaugurata per la festa del primo maggio. Poco distante ci sono gli autoscontri, dove le poche automobili in vetroresina giacciono parcheggiate sui resti della pista, aspettando inerti che le intemperie finiscano di logorarle. Anche se quest’area è molto contaminata, mi avvicino alla ruota per fotografare qualche particolare. Entro nella pista dell’autoscontro per cercare un’inquadratura diversa dalle solite, approfittando di un debole spiraglio di sole che illumina la scena.
Proseguo verso lo stadio, diventato ormai una foresta impenetrabile, stando bene attento a camminare il più possibile sul cemento che tiene basso il livello di radioattività. La città aveva una promettente squadra di calcio locale chiamata FC Stroitel Pripyat pronta a entrare nel mondo del professionismo poco prima dell’incidente. Passeggiando fra i resti di cartelli inneggianti la propaganda del partito e scheletri di palazzi ormai vuoti mi chiedo se gli abitanti di Pripyat, ignari della gravità dell’incidente, provarono una sorta di vibrazione negativa come quella che sto provando ora. L’incrollabile fede nel partito comunista li ha sicuramente rassicurati ma alla fine la tempesta è arrivata, spazzando via le menzogne del regime.
Dopo lo stadio Yuri e Pierpaolo ci accompagnano all’interno di un grande condominio. Pripyat è caratterizzata da un continuo susseguirsi di torreggianti palazzi grigi e squadrati chiamati “soviet block“, frutto del brutalismo sovietico. Anche se all’epoca la città era considerata un modello per il futuro, ora tutti questi edifici sono pesanti e goffi. Mi vengono in mente fabbricati simili visti nella periferia di Berlino est, quando la produzione e la standardizzazione di massa erano di primaria importanza. Il cielo dello stesso colore dei palazzi, pesante come il piombo, rende ancora più surreale gli enormi scheletri della città. Sembra di esplorare un paesaggio alieno.
Saliamo piano dopo piano arrivando in cima al palazzo. Non posso fare a meno di sbirciare all’interno di qualche appartamento: sono quasi tutti vuoti con il mobilio a soqquadro. La polvere e i detriti avvolgono alcuni oggetti, o quello che ne resta, appartenuti ai residenti. Alla fine troviamo quello che stavamo cercando: un appartamento più accogliente dei precedenti, ammobiliato e per quanto possibile abbastanza pulito. Questo è un rifugio degli stalker, le persone che entrano illegalmente nella zona di esclusione. Ce n’era uno anche nel villaggio estivo ma è andato a fuoco, completamente distrutto. Dalla finestra si vede in lontananza la centrale di Chernobyl, una presenza opprimente ma allo stesso tempo affascinante.
La prossima tappa è l’asilo nido di Pripyat. Passando per un cortile invaso dalla vegetazione, Yuri ci fa segno di entrare in silenzio. I regolamenti all’interno della zona cambiano velocemente di punto in bianco. Adesso per esempio è vietato entrare negli edifici ma molte guide ignorano questa regola: sanno benissimo che chi viene a Pripyat vuole curiosare all’interno dei palazzi per farsi un’idea della vita ai tempi del comunismo o per scattare fotografie. Le prime stanze che incontro sono piene di piccole culle arrugginite, tutte in fila e divise da varie stanze vetrate. Mentre guardo questa desolazione, immagino i neonati in culla che dormono sereni o piangono agitati, accuditi dalle infermiere. Stanze piene di letti e neon rotti che pendono dal soffitto sbucano in corridoi bui dalla vernice scrostata. Ci sono alcune sale operatorie in pessimo stato con le classiche lampade scialitiche sparse ovunque. Scaffali di vetro custodiscono ancora qualche fiala di liquido che non riesco a identificare. A terra e sulle scrivanie sono appoggiati documenti e libri. Le sedie ginecologiche sembrano scheletri inquietanti disseminati per l’istituto. Questo luogo è molto emozionante e offre spunti fotografici interessanti.
Ci siamo attardati troppo e la luce inizia a calare. Camminiamo svelti circondati dagli alberi spogli che hanno invaso le strade. Due cani randagi ci accompagnano precedendoci. Sembra che sappiano esattamente dove dobbiamo andare. Non parla quasi nessuno, abbiamo ancora in mente le immagini surreali di quelle culle vuote. Entriamo nella scuola numero cinque e subito mi rendo conto che bisognerebbe passare un’intera giornata solo in questo edificio tanto è pieno di ricordi e oggetti.
Poster, disegni e libri sono sparsi ovunque. Le classi sono piene di banchi vuoti e di oggetti che si usavano durante le lezioni. E’ un vero e proprio tuffo nel passato. Sono un po’ agitato perché so di non aver abbastanza tempo per esplorare l’edificio come vorrei. Inizia a fare buio e più i minuti passano più sono costretto ad alzare gli ISO della fotocamera nonostante abbia acceso anche il pannello led. E’ una vera e propria corsa contro il tempo. Entro in una piccola stanza buia con il pavimento ricoperto di libri buttati alla rinfusa, quando all’improvviso sento un gran trambusto dietro di me. Mi volto di scatto: sono i due cani che stanno scavando nei cumuli di carta alzando un gran polverone. Devono aver fiutato un topo. All’interno di un’aula trovo Yuri, solitario e illuminato dall’aurea della sua torcia, intento a leggere alcuni documenti appoggiati su di un banco. Riguardano tutti l’addestramento militare. Nell’aula c’è anche un modellino in scala di quello che sembra essere un campo di addestramento o una fattoria.
Ci spostiamo verso la piscina comunale Lazurnyj (Azure) quando fuori è già buio, attraversando un campo da basket al coperto con le assi di legno ormai marce. Non ho il cavalletto e provo a scattare una foto a mano libera ma ISO 25.600 rovinano irrimediabilmente l’immagine. Appoggio quindi la fotocamera a terra, abbasso gli ISO e utilizzo una lunga esposizione. L’inquadratura è un po’ forzata ma non importa. Meno male che Yuri fa finta di non vedere così posso scattare almeno una foto ricordo.
Nella scuola media numero tre, sulla via Sportivnaya proprio accanto alla piscina coperta, troviamo la famosa stanza dove sono accatastate le maschere antigas dei bambini. Nell’oscurità rotta dal fascio delle torce la scena è ancora più spettrale. Durante il regime sovietico, gli attacchi nucleari e biologici erano percepiti come una reale minaccia. Nelle scuole veniva insegnato ai bambini come comportarsi in caso di attacco e come usare le maschere che facevano parte dell’attrezzatura scolastica standard. Numerosi poster affissi alle pareti o appoggiati sui banchi raffigurano le procedure esatte da tenere in caso di pericolo.
Nell’oscurità al di fuori dell’edificio sentiamo alcuni rumori. Yuri subito si allerta e ci fa cenno di spegnere le luci e rimanere in silenzio. Che sia un militare di ronda attirato dalle nostre torce? Passano secondi che sembrano interminabili mentre usciamo lentamente all’aperto cercando di fare meno rumore possibile. Qualche vetro rotto scricchiola sotto gli scarponi. La tensione si allenta di colpo quando scopriamo che è Alexander ed è venuto a cercarci avvicinandosi col mini van per guadagnare tempo. Al ritorno da Pripyat la strada diventa nera come la pece. Non ci sono lampioni e gli alberi ai lati della strada diventano sagome spettrali e indistinte. La stanchezza inizia a farsi sentire mentre mi appoggio allo schienale cercando di metabolizzare tutte le emozioni provate durante la giornata. Ritornati in albergo, dopo cena, ci fermiamo fuori per l’ultima sigaretta. A Chernobyl c’è il coprifuoco dalle ventidue in poi e le inferiate del terrazzino che porta all’ingresso dell’albergo sono già chiuse. Due cani dormono davanti all’entrata. Chiudo il giubbotto e mi stringo fra le spalle mentre scendono i primi fiocchi di neve. Il silenzio attorno al piccolo albergo mi avvolge come una coperta, allontanando le immagini cupe che mi hanno accompagnato per tutto il giorno.
Giorno 3 – Samosely, i dannati della zona di evacuazione
Sono seduto al tavolo per la colazione e osservo allibito il piatto ormai da diverso tempo. Sono completamente spiazzato, stamattina mai mi sarei immaginato di trovare spaghetti al ragù bianco! Dopo aver dato da mangiare ai cani qualche salsiccia, partiamo per andare a trovare i Samosely immersi in un paesaggio completamente imbiancato. La zona di alienazione è ormai terra di nessuno e i pochi edifici sono abitati da vecchi residenti o persone in fuga dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Il governo ucraino ha deciso che vivere nei primi venti chilometri della zona di alienazione adesso è sicuro e per cercare di ripopolare l’area, è disposto a offrire incentivi irrisori. La strada per raggiungere la prima delle anziane si snoda lungo fattorie abbandonate, paesaggi desolati e fitte foreste scure. Durante il viaggio incontriamo una ragazza ferma lungo la strada per un guasto alla macchina. Mentre Yuri e Alexander si fermano per aiutarla, io fotografo il paesaggio.
I Samosely continuano ancora oggi a coltivare la terra e allevare animali in zone contaminate dove, a rigore di logica, non si dovrebbe neanche vivere. Mi domando perché sono rimasti in questo posto così inospitale. Continuano la loro vita di sempre, cercando di sopravvivere fra il dolore e la rassegnazione. In queste remote aree rurali la paura delle radiazioni è stata soppiantata da quella per la fame. All’epoca dell’incidente di Chernobyl chi non aveva i mezzi o le possibilità è rimasto nelle terre contaminate, nonostante le minacce dei militari. Molti sono tornati perché non sono riusciti a integrarsi nelle città più grandi e moderne. I rifugiati erano considerati dei reietti e pericolosi portatori di radioattività. La mancanza di lavoro e l’alto costo della vita cittadina hanno spinto le persone a migrare nuovamente verso le zone rurali contaminate. Sono poco più di un centinaio i Samosely che abitano in queste terre maledette e ogni anno sono costretti a piangere per qualcuno che questa zona la lascia per sempre.
Maria Shovkuta, 92 anni, villaggio di Opachichi
La prima babushka (nonna in russo) che incontriamo è Maria Shovkuta. Prima di presentarci alla sua porta Yuri ci avverte che da un paio d’anni non sta più molto bene e c’è anche il rischio che ci cacci via. Sono emozionato all’idea di conoscere la popolazione locale e il primo impatto mi travolge come un treno. Si apre la porta e ci accoglie una minuta vecchietta visibilmente frastornata. Sarà alta un metro e venti o poco più, con le gambe magrissime che finiscono in un paio di pantofole di lana che a momenti sono più grandi di lei. Un foulard le avvolge il viso consumato ma quello che mi colpisce di più sono le sue mani, scure e grandissime. E’ chiaro il forte legame che queste persone hanno con la propria terra dopo una vita di sacrifici passata a coltivare i campi e allevare animali. Rimango senza parole davanti a questa donna che, nonostante l’età e i problemi di salute, trova ancora la forza per continuare a vivere da sola.
Entriamo in cucina, un piccolo ambiente spartano diviso da una tenda. Maria si siede e inizia a parlare con Yuri. Anche lui alle volte fatica a capire cosa dice. Le sue mani grandi non stanno mai ferme. Le porta spesso davanti al viso, alle volte sembra in segno di preghiera, altre per coprire la bocca sdentata. Ha l’aria affranta di chi ha visto troppe cose brutte durante la vita. Mi si stringe il cuore, provo tanta tenerezza per lei. Sono talmente incantato mentre la guardo che non provo neanche a fotografarla.
Abbiamo portato un po’ di regali dall’Italia e mentre Maria cerca di sistemarli, guardo oltre la tenda. E’ la sua camera da letto ricavata da una nicchia nel muro con materassi, coperte e cuscini buttati alla rinfusa. Mi ricorda la tana invernale di un piccolo topolino, avvoltolato su se stesso e circondato dal calore della paglia e foglie secche. Mentre Maria parla, cerco di sciogliere quel maledetto nodo in gola che mi è venuto e provo a scattare qualche foto. Non è per niente facile: la cucina è piccola e lei non sta ferma un attimo.
Si alza per andare in sala, un ambiente grande e accogliente pieno dei suoi ricordi. Appeso al muro c’è un bellissimo ritratto di lei con suo marito da giovani. Intanto Maria cerca qualcosa muovendosi a tastoni per tutta la stanza. Ormai non ci vede molto bene e sta perdendo anche l’udito. Finalmente trova quello che stava cercando: un sacchetto rosso con altre foto di famiglia che ci mostra fieramente.
E’ ora di lasciare Maria ma prima di andare la bacio e la abbraccio forte mentre qualche lacrima che non riesco più a trattenere mi riga le guance. Fuori dal cancello incrociamo un’altra persona che è venuta a controllare la vecchia babushka e a portarle da mangiare. Fortunatamente qualcuno la va a trovare di tanto in tanto. Ogni settimana passa un negozio mobile fornito di beni di prima necessità e una volta al mese un dottore visita a domicilio i pochi Samosely rimasti.
Aggiornamento su Maria Shovkuta
Con grande dolore ho appreso che Maria Shovkuta è morta il giorno 11 agosto 2020. La ricorderò come una piccola donna piena di energia che mi ha saputo emozionare nonostante le sue condizioni di salute precarie. Un altro frammento di storia della zona è andato perduto per sempre con Maria, inghiottita dal buio intenso di queste lande desolate.
Hanna Zavorotnya, 87 anni, villaggio di Kupovate
Arriviamo a casa di Hanna Zavorotnya mentre qualche raggio di sole fa capolino e illumina il paesaggio imbiancato. Poco dopo l’evacuazione Hanna è ritornata nella sua fattoria. La babushka ha un temperamento forte e non si lamenta della sua vita. Finché c’è da mangiare per lei va tutto bene. Il suo sguardo fiero e determinato è quello di una donna che ha affrontato tante difficoltà e non si è mai arresa. Hanna non è sola, vive con la sorella minore Sonya (83 anni) che ha problemi fisici e mentali fin dalla nascita.
Pescano e cacciano, raccolgono funghi e bacche nonostante il terreno sia contaminato. I Samosely hanno più paura della fame che delle radiazioni. Hanno vissuto tutti il terribile Holodomor, il regime di carestia imposto da Stalin all’Ucraina che causò milioni di morti. Hanna vuole che pranziamo da lei e, da donna forte qual è, recluta subito Yuri e Valentina per pelare le patate. Lei intanto prende un pentolone e prepara le frittelle.
La tavola è pronta: patate, cetrioli, frittelle e la terribile samogon – vodka artigianale distillata in casa. Ho un momento di esitazione prima di mangiare, quanto sarà contaminato questo cibo? I liquidatori sostenevano che la vodka li aiutasse a combattere le radiazioni, o almeno cercavano di convincersi. Anch’io decido di adottare la stessa tattica affidandomi alla vodka che brucia come il fuoco e, tra un brindisi e l’altro, inizio a mangiare.
Sonya è a sedere sul letto, con gli occhi vuoti e l’aria assente. Solo con il bellissimo gatto che le sta sempre accanto, sembra riacquistare un po’ di vitalità. Lo prende e lo accarezza, lui contraccambia con fusa rumorose, stiracchiandosi fra le sue dolci coccole.
Aggiornamento su Sonya Zavorotnya
Purtroppo anche Sonya ha lasciato per sempre la Zona, in silenzio, come tutti i Samosely. E’ morta pochi giorni prima di Natale 2020. Non dimenticherò mai il suo sorriso genuino, il suo sguardo pieno di gioia, mentre accarezzava il gatto che non la lasciava sola un attimo.
Maria Ilchenko, 79 anni, villaggio di Kupovate
Salutiamo Hanna e Sophia per andare a trovare Maria Ilchenko che abita nello stesso villaggio. Maria ci accoglie con un gran sorriso e sparisce subito all’interno di un fienile. Poco dopo esce con un bottiglione di vodka sottobraccio, lo sguardo sornione e un’espressione compiaciuta sul volto. In questo momento la luce che filtra fra le nuvole grigie è magica e il paesaggio prende improvvisamente vita. Quando entra in casa, per prima cosa Maria ci mette tutti a sedere. Poi va da Valentina e, parlandole in ucraino, le tiene la testa tra le mani e la bacia, mentre recita a bassa voce una preghiera. Valentina è visibilmente scossa, è stato un momento molto toccante.
Anche lei si dimostra molto ospitale preparando la tavola con pane, cetrioli, funghi, insaccati e formaggio. Ovviamente partiamo col primo brindisi mentre la padrona di casa, come per magia, tira fuori una bacchetta di legno per dare una bella strigliata a chi non beve. Ci si mette anche Yuri a proporre i brindisi e così fra un “nazdorovye” e l’altro arrivo a quota dodici bicchieri. Ho bisogno di un po’ di aria fresca. Esco ma barcollo e cado all’indietro. Mi ritrovo a terra in mezzo alla neve fresca mentre guardo le nuvole che corrono veloci in questo posto dimenticato da tutti. Nonostante sia steso sulla terra contaminata, il senso di pace e serenità che provo in questo momento è totale. Mi sono sempre chiesto se alla fine dei conti le persone povere e semplici non vivano meglio di quelle ricche e piene di preoccupazioni. Ora so la risposta… I miei compagni escono alla spicciolata. Quando ci siamo tutti, salutiamo Maria e saliamo sul van per tornare all’albergo. A parte il “problema” della vodka artigianale, oggi ho passato proprio una gran bella giornata assieme alle babushka di Chernobyl, tenere, simpatiche e coinvolgenti.
Giorno 4 – Visita alla centrale nucleare di Chernobyl
L’alba ha dei bellissimi colori tenui che vanno dal blu scuro all’arancione. Decidiamo di fare una passeggiata per la città di Chernobyl. Il centro abitato si trova a soli quindici chilometri dalla centrale ed è stato poco colpito dalle radiazioni. La città è in stato di semi abbandono. Ora vivono circa cinquecento persone fra tecnici, militari, poliziotti, vigili del fuoco e il personale dell’ospedale assieme ai pochi residenti rimasti. Ci sono tre piccoli supermercati, un centro postale e un paio di alberghi. Il sistema di riscaldamento cittadino è centralizzato, un vanto tecnologico non da poco per le città dell’ex Unione Sovietica. Tutti gli edifici sono collegati da enormi tubi coibentati, che passano all’aperto e attraversano le strade per arrivare in un’unica centrale di riscaldamento. Non oso immaginare quanta dispersione di calore e spreco di energia ci sia durante tutto il tragitto. I piccoli supermercati sono i punti più animati della città: qui la gente si ferma per bere un caffè caldo e per comprare le sigarette, fare due chiacchiere prima di iniziare un’altra giornata lavorativa. Ci sono anche gli immancabili cani randagi che aspettano i nostri salsicciotti, dimostrando tutta la loro felicità scodinzolando vistosamente.
Ci dirigiamo a piedi verso il memoriale della città creato in occasione del venticinquesimo anniversario dall’incidente della centrale nucleare di Chernobyl. C’è un’imponente statua di ferro del terzo angelo che suona la tromba. Il monumento è associato alla tragedia della centrale nucleare per una citazione della Bibbia: Apocalisse 8:10-11 “Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare“. Chernobyl in ucraino significa “erba amara“, l’Assenzio.
Il memoriale prosegue lungo un sentiero costellato di cartelli. Ogni cartello ha due facce e indica il nome di una città o villaggio che non esiste più o che è stato abbandonato a causa dell’incidente di Chernobyl. La parte anteriore è bianca, quella posteriore ha una base nera con il nome sbarrato in rosso. Il sentiero è molto lungo e i cartelli si perdono a vista d’occhio. Mi rattristo pensando alle 160.000 persone che hanno dovuto lasciare la propria vita in un modo così brusco e orribile.
Più avanti, con mia grande sorpresa trovo un’enorme statua di Lenin, probabilmente l’ultima rimasta in tutta l’Ucraina. Dopo il crollo del regime sovietico, l’Ucraina libera dalla tutela russa ha voluto tagliare i ponti col passato, distruggendo o eliminando tutti i simboli riconducibili al regime. All’epoca questa statua si trovava vicino a una stazione della polizia e a quella del KGB. Nessuno si è mai azzardato a toccarla e così è rimasta intatta fino ad oggi. Vladimir Lenin divenne una leggenda grazie alla sua retorica propaganda basata sull’abolizione dell’oppressione e delle classi sociali, fondata sulla proprietà comune e sull’equa spartizione della ricchezza. Passiamo il resto della mattina nell’ex centro di ricerca sulle mutazioni dovute alla radioattività e nella torre di raffreddamento mai terminata del reattore numero cinque.
Il laboratorio di ricerca sulle mutazioni
Il laboratorio di ricerca sulle mutazioni è situato vicino alla centrale nucleare di Chernobyl. Prima dell’incidente era una stazione di allevamento ittico, dopodiché fu abbandonata per essere riconvertita in laboratorio radiologico. Gli scienziati prelevavano campioni di animali vivi dalla zona di alienazione per analizzare tracce di radiazioni e mutazioni. Il laboratorio ha funzionato a pieno regime fino al 1996, per essere definitivamente chiuso nel 2008 con la graduale decentralizzazione degli studi in corso. In quel periodo gli strumenti e le attrezzature più importanti sono stati spostati o rubati dai saccheggiatori. Mentre indosso la mascherina e mi preparo per l’esplorazione, noto Alexander che prepara la sua attrezzatura fotografica. Sono curioso di conoscere meglio la storia della nostra taciturna guida ucraina e nei giorni seguenti chiederò maggiori informazioni a Pierpaolo.
Il primo edificio in cui entriamo era un vivaio ittico. E’ un grande capannone con grossi cilindri di vetro che risplendono illuminati dai bassi raggi di sole che penetrano l’oscurità. Non c’è altro d’interessante perciò passo al secondo edificio che, per com’è strutturato, sembra più una casa riconvertita. Tutte le stanze sono spoglie e piene di sporcizia. Le scale che portano al primo piano sono coperte da uno spesso strato di polipropilene. Noto subito una collezione di vasetti in vetro appoggiata a un davanzale. Ogni vasetto contiene pezzi di pesce immersi in una sostanza chiara. Altri campioni sono ormai troppo decomposti per capire cosa siano. E’ inquietante pensare che gli scienziati studiassero gli effetti del più grave incidente nucleare della storia utilizzando barattoli per alimenti riciclati.
La torre di raffreddamento numero cinque
Proseguiamo a piedi lungo i binari di una vecchia ferrovia verso la massiccia torre di raffreddamento del reattore numero cinque. La centrale nucleare di Chernobyl era composta da due reattori RBMK 1000 di prima generazione (1 e 2) e da due di seconda generazione (il 3 e il 4) dotati di una struttura di contenimento più sicura, o almeno così si pensava. Al momento dell’incidente erano in costruzione altri due reattori (il 5 e il 6) rimasti incompiuti. Il reattore numero cinque doveva entrare in funzione nel novembre del 1986 mentre l’attivazione del sei era prevista per il 1994. Avvicinandomi alla torre di raffreddamento, la prospettiva la fa apparire enorme. Quando arrivo al centro del cono in cemento armato tra cumuli di erbacce, cavi e metallo, mi sento minuscolo. Guardando la bocca del camino di ventilazione, la torre con le sue strutture di metallo protese vero l’alto sembra un manufatto alieno. Per onorare il trentesimo anniversario del disastro di Chernobyl l’artista australiano Guido Van Helten ha creato un dipinto partendo da una fotografia scattata dal fotoreporter Igor Kostin, il primo giornalista a documentare la tragedia.
Il disastro di Chernobyl
Ci dirigiamo verso l’entrata della centrale dove ci aspetta la nostra guida, un ragazzo giovane e simpatico. Dopo varie raccomandazioni durante un breve briefing iniziale, ci porta davanti a grande modello in scala della centrale nucleare di Chernobyl molto ben dettagliato e, attraverso dei filmati, ci racconta com’è avvenuto l’incidente. La notte fra il 25 e il 26 aprile 1986 era in corso un test di sicurezza sul reattore numero quattro. L’impianto è stato spinto aldilà dei suoi limiti e i tecnici, ignari dei difetti di progettazione secretati dal partito, hanno addirittura disattivato tutti i sistemi automatici di sicurezza. La fissione di materiale contenente isotopi radioattivi come l’uranio 235 crea tantissima energia che trasforma l’acqua in vapore. Il vapore è poi incanalato in grosse turbine che producono energia elettrica. L’uranio, il combustibile del reattore, dev’essere tenuto alla giusta temperatura dall’acqua e dalle barre di moderazione in boro e grafite, gli strumenti per moderare la fissione e la potenza del reattore.
Il test inizia con una potenza molto bassa che manda in blocco il reattore RBMK. Per ripristinarlo il vice capo ingegnere ordina la rimozione di quasi tutte le barre di controllo. In questo modo il reattore riprende progressivamente potenza e si può finalmente iniziare il test. I tecnici non sanno però che nel punto in cui i sensori non riescono a rilevare i dati, la temperatura del nocciolo sta crescendo pericolosamente creando una gran quantità di vapore. Il reattore a questo punto non è più stabile. Quando gli strumenti segnalano un’improvvisa impennata della potenza, il capoturno decide di premere il famoso interruttore AZ-5 per attivare la procedura di SCRAM, l’arresto d’emergenza del reattore. Le barre di moderazione a questo punto sarebbero dovute rientrare tutte automaticamente nei loro condotti. Ciò non avvenne perché sia le barre sia i condotti erano deformati dal calore, che aumentava anche a causa della grafite incandescente rimasta esposta.
Alle ore 1:23:45 del 26 aprile 1986 il destino della centrale nucleare di Chernobyl e della vicina città di Pripyat erano segnati: lo scudo di contenimento e il tetto dell’edificio del reattore quattro furono distrutti a causa di due esplosioni consecutive. Dopo l’incidente si stima che siano state disperse nell’ambiente almeno sette tonnellate di materiale radioattivo. Centotrenta chilometri quadrati fra Ucraina, Russia e Bielorussia furono contaminati insieme a cinque milioni di persone. Dopo giorni interi passati cercando di sconfiggere l’incendio, per contenere le radiazioni è stato costruito uno scudo attorno al reattore esploso, soprannominato il sarcofago. La struttura è stata realizzata molto velocemente a causa delle condizioni estreme cui erano sottoposti i lavoratori. Adesso l’edificio del reattore quattro è protetto da una nuova struttura di contenimento, chiamata NSC (New Safe Confinement o semplicemente Arco), destinata a durare un centinaio d’anni.
Dentro la centrale nucleare di Chernobyl, nel cuore del mostro
Terminate le spiegazioni andiamo a mangiare in mensa prima della visita all’interno della centrale che inizia con una scena degna del miglior film di spionaggio. La guida ci conduce in un piccolo corridoio con tre porte chiuse. Dopo qualche minuto se ne apre una e spunta una signora che sembra appena uscita dagli anni dalla guerra fredda. Fa un cenno e tre di noi entrano in un piccolo stanzino. Ci sono tre poltrone con altrettanti computer e impiegate. Consegniamo i passaporti e capiamo che ci dobbiamo accomodare sulle poltrone, rimanendo seduti immobili. Parlottando a bassa, le signore battono svelte le dita sulla tastiera. Dopo qualche minuto ricevo il mio nuovo dosimetro e sono libero di uscire. Il passo successivo è quello degli spogliatoi: dobbiamo svestirci completamente per indossare un semplice camice bianco, un giubbotto e un caschetto. Sono elettrizzato e teso allo stesso tempo, non capita tutti i giorni di poter visitare una centrale nucleare, tanto meno quella di Chernobyl. Il primo ambiente degno di nota è una grande sala riunioni dentro un bunker con tutta l’attrezzatura dell’epoca perfettamente conservata. La guida ci fa compilare un questionario, dove fra le altre cose dichiariamo che la visita alla centrale è a nostro rischio e pericolo. Ci dirigiamo verso la sala computer passando per il famoso “golden corridor“, il corridoio d’oro, l’arteria principale lunga quasi tutto l’edificio dei reattori tre e quattro.
La progettazione del computer SKALA (sistema kontrolya apparata Leningradskoj Atomnoj o sistema di controllo della centrale nucleare di Leningrado) risale al 1960 ed è stato creato per elaborare e monitorare le migliaia di dati raccolti dai sensori nei reattori nucleari RBMK. Era uno dei primi computer industriali sovietici che memorizzava i dati su supporti magnetici e nastri perforati. Il programma PRIZMA invece aiutava i tecnici nella gestione dell’impianto. Sono impressionato dalle colossali dimensioni di questo sistema che, a conti fatti, come potenza di calcolo non può neanche competere con lo smartphone che ho in tasca.
La prossima tappa è la sala controllo del reattore numero tre, una copia esatta di quella dell’unità quattro. Entrambe sono situate fra la sala macchine e il relativo reattore. E’ molto ben tenuta e l’ambiente è abbastanza luminoso. Tutto il blocco numero tre è rimasto in funzione fino al 2000. Sapendo che la sala controllo quattro è stata quasi del tutto smantellata chiedo alla guida di mostrarmi il leggendario pulsante AZ-5 (chiamato in russo A3-5). Una lunga serie di scrivanie e pannelli sono disposti a semicerchio su due file, pieni di pulsanti, spie e indicatori. In bella mostra sulla parete, c’è una panoramica del reattore con i relativi indicatori ad asta e altri segnalatori dall’arme.
Continuiamo lungo il corridoio d’oro e, mentre incontriamo tecnici che vanno e vengono, alla fine arriviamo nel cuore del mostro, la sala controllo del reattore quattro. Questa è la stanza dove i tecnici hanno seguito il test spingendo il reattore oltre i suoi limiti. Attivando la procedura d’emergenza per l’arresto rapido, ignari dei difetti di progettazione, hanno fuso il nocciolo innescando l’esplosione che ha causato il più grave incidente nucleare della storia. La sala è ancora molto contaminata, in particolare le strutture di metallo della plancia, per cui possiamo rimanere al massimo per cinque minuti. Tutto qui ha un’aria spettrale, dalle consolle di comando senza bottoni che mi guardano attraverso occhi dalle orbite vuote, al cartello giallo di pericolo radioattivo esposto in bella vista. La stanza è buia e fredda, sembra di stare in una tomba.
Sono testimone di una parte della storia sputata fuori dall’angolo più oscuro dell’era nucleare. Vedere le immagini su internet è diverso, sono talmente distanti da sembrare finte. Trovarsi davanti a quest’orrore è un evento scioccante, lo stupore della realtà mi riempie l’animo d’angoscia. Devo ammetterlo, mi trovo davanti a qualcosa più grande di me che va oltre ogni comprensione.
Lascio la stanza con una sensazione di forte disagio e sconforto, come se mi fossi ritrovato dentro un inferno terreno, tangibile. Passiamo davanti al memoriale dedicato a Valery Khodemchuk, un operaio della centrale di Chernobyl il cui corpo non è mai stato ritrovato. Dopo aver superato la sala pompe, con un ascensore scendiamo al livello inferiore e improvvisamente mi trovo a camminare sopra lo scudo biologico del reattore numero tre. La sala che lo ospita è immensa, così come la sua circonferenza. E’ incredibile: sto camminando sopra i condotti del combustibile di un reattore nucleare. Ogni blocco è un canale che conteneva una barra di combustile. Ora l’uranio è completamente e stoccato in un edificio esterno.
Ripercorriamo a ritroso la stessa strada fino allo spogliatoio. Dopo il cambio d’abito mi ritrovo nuovamente seduto sulla poltrona nel piccolo stanzino. Consegno il dosimetro alla signora, che porta un paio di occhiali neri con lenti spesse come fondi di bottiglia, e lei inizia subito a battere sulla tastiera. Questa volta provo a girare la testa e guardare il monitor. Vengo immediatamente ripreso con un’incomprensibile frase in ucraino. Anche se non conosco la lingua, non ci vuole molta fantasia per capire che mi ha detto di stare fermo. Con la coda dell’occhio vedo la signora chiamare la sua collega, indicare qualcosa sul monitor e, per un istante, entrambe guardarmi di sbieco. Poco dopo ricevo il permesso di andare. Chissà cosa si sono dette: avrò forse ricevuto una dose di radiazioni più alta del normale? Non lo saprò mai … Prima di lasciare la centrale nucleare di Chernobyl ci fermiamo a parlare con la nostra simpatica guida. Si vede che il suo lavoro gli piace, lo fa con passione e trasmette un entusiasmo contagioso. Scopro che suo padre lavorava alla centrale prima dell’incidente e che ci lavora tuttora. La famiglia si doveva trasferire a Pripyat alla fine di maggio, un mese dopo il disastro. Sono stati fortunati, hanno evitato la sofferenza dell’evacuazione. Ritornati a Chernobyl città ci fermiamo al supermercato per le ultime spese e per le salsicce dei cani. Proviamo a vedere se l’unica chiesa ortodossa di St. Elijah è ancora aperta, ma è tardi e troviamo la porta chiusa.
Giorno 5 – L’antenna Duga 3 e l’ultima visita a Pripyat
Purtroppo siamo arrivati all’ultimo giorno nella zona di alienazione di Chernobyl. Oggi andiamo a visitare l’antenna militare Duga 3 in quest’uggiosa mattinata invernale. Alexander svolta in una lunghissima strada laterale completamente dritta che taglia il bosco a metà. Parcheggia il mini van davanti alla guardiola e, mentre noi scendiamo dopo aver indossato la solita mascherina, lui prepara silenzioso ancora una volta la sua attrezzatura fotografica. Pierpaolo rimane indietro per girare delle riprese aeree col drone. Il resto del gruppo si affida alla guida di Yuri che lo guida in direzione dell’edificio principale.
Duga 3 il più grande sistema d’allarme mai costruito
Mentre osservo i resti dei murales inneggianti alla propaganda militare, la grande antenna sbuca maestosa fra gli alberi come una presenza inquietante. Duga 3 faceva parte di un sistema studiato per intercettare con largo anticipo il lancio di missili balistici intercontinentali che potevano provocare un attacco nucleare da parte degli americani. In questo modo i vertici del partito avrebbero avuto tutto il tempo per contrattaccare e ripararsi all’interno dei bunker. Peccato che questo costoso radar sovietico non abbia mai funzionato a dovere. Tutte le antenne sono state smantellate a parte questa a causa della vicinanza con la centrale nucleare di Chernobyl. Si temeva che l’abbattimento dell’antenna potesse provocare un piccolo terremoto in grado di far crollare il sarcofago della centrale già strutturalmente compromesso. Duga 3 è l’oggetto più sbalorditivo dell’intera zona di esclusione con i suoi centocinquanta metri di altezza e novecento di lunghezza.
L’intero complesso era coperto dal segreto militare e non era segnato neanche sulle mappe. La piccola città Chernobyl 2 è stata costruita per ospitare i lavoratori e le loro famiglie con tutte le infrastrutture necessarie come l’asilo, un hotel, un centro sportivo e una scuola. Passiamo una serie di locali vuoti che dall’aspetto dovevano essere dei garage per mezzi militari. Arriviamo all’edificio principale dove le stanze sono quasi tutte vuote, fatta eccezione per l’interessante sala per l’addestramento. L’enorme locale che conteneva il sistema informatico è stato ripulito da ogni attrezzatura, così come la sala comando dell’impianto radar.
Uscito dall’edificio, attraverso un po’ di sterpaglie e dopo una piccola duna di terra mi trovo sotto l’antenna. Se da lontano Duga 3 sembra molto grande, una volta arrivati ai suoi piedi si percepiscono le sue reali dimensioni. E’ enorme ed è impossibile da fotografare tutta intera. Per rendere l’idea della sua imponenza inserisco nell’inquadratura l’elemento umano come termine di paragone. Inizio poi a giocare col grafismo: l’antenna Duga 3 è un vero capolavoro d’ingegneria meccanica. L’intreccio infinito di tubi, bulloni e cavi metallici assume una valenza poetica che conduce a una visione ipnotizzante.
Dopo aver fotografato Duga 3 in tutti i modi possibili, decidiamo di tornare a Pripyat per l’ultima volta. Il cielo si sta aprendo col sole che buca il grigiore della giornata. Per guadagnare tempo decidiamo di saltare il pranzo alla mensa della centrale di Chernobyl.
Arrivederci Pripyat
Mi trovo nuovamente a Pripyat. Cammino sui detriti di quella che un tempo era una città viva e moderna. Ormai è caduta in rovina: molti palazzi sono gravemente compromessi e non so per quanto tempo ancora sarà possibile visitarli. Visitiamo un asilo dove all’interno regna la confusione. Nelle camere i giocattoli mezzi rotti dei bambini sono sparsi ovunque assieme alle immancabili maschere antigas. I lettini arrugginiti e illuminati dai raggi di sole che filtrano bassi dalle finestre, creano incredibili contrasti. Le ombre sembrano lunghe dita che tentano di ghermirmi. Mi abbasso e cambio prospettiva. Una bambola è imprigionata tra le sbarre, aspetta paziente il principe azzurro che la libererà dalla prigionia. Armadietti aperti contengono scarpette e peluche impolverati. Squarci di luce rivelano indicibili orrori e, mentre guardo nelle stanze, le uniche cose a cui riesco a pensare sono i sogni infranti dei bambini e le speranze mal riposte in un regime malato. Sono pratico di urbex avendo esplorato molti luoghi abbandonati, ma non mi sono mai trovato davanti a tanta devastazione che trasuda ovunque dolore.
Finito di esplorare l’asilo ci dirigiamo verso il Cafe Pripyat e lo yachting club, una delle zone più contaminate della città. I colori delle vetrate del Cafe Pripyat sono fantastici, per fortuna nessuno le ha ancora rotte. Questo bar, aperto solo due mesi prima dell’incidente, doveva essere meraviglioso con la sua bella terrazza piena di tavolini con vista sul fiume Pripyat dove gli abitanti si riunivano per chiacchierare. Ora è solo un luogo da cui stare lontani.
Lo yachting club fa impazzire il contatore geiger. Il suo costante crepitio è diventato quasi un fastidio, tanto che Pierpaolo decide di spegnerlo. E’ tornata la pace. Per gli standard sovietici avere un circolo nautico in una città di lavoratori era considerato un lusso. Sulla riva del fiume c’è una grande barca arenata, una volta era un ristorante. Per molto tempo mi sono chiesto come sarebbe stato attraversare le strade fantasma di Pripyat pervase da un pericolo invisibile ma letale e sempre presente. L’ansia iniziale per le radiazioni è sparita di colpo in un paio di giorni, non mi sono nemmeno reso conto. Ho alzato una barriera contro il disagio che mi circonda. Il cervello dopo essersi abituato al nuovo ambiente, non vedendo le radiazioni, percepisce tutto come una situazione di normalità.
Le ultime regole in vigore vietano di salire sui tetti degli edifici quindi raggiungiamo il sedicesimo piano di un grande condominio giusto il tempo per ammirare il tramonto. I colori sono stupenti e l’Arco, il nuovo sistema di contenimento della centrale di Chernobyl, brilla arancione come un piccolo sole. Decido di spostarmi in un terrazzo secondario per godere appieno questo momento di pace assoluta. Mentre guardo dall’alto Pripyat, respiro il silenzio e ascolto la voce del vento che sibila fra gli edifici decadenti circondati da alberi scheletrici. Mai come adesso mi sono sentito in pace con me stesso. Mentre gli altri fotografano il tramonto, mi aggiro tra gli appartamenti dell’ultimo piano. Una volta erano case accoglienti, ora sono solo cimiteri di ricordi persi nell’oblio. Rimaniamo tutti in rispettoso silenzio aspettando il calar del sole poi iniziamo a scendere.
Alexander ci aspetta all’uscita, pronto per riportarci a Kiev insieme a Yuri. Lasciamo la zona di esclusione per l’ultima volta. Al checkpoint riconsegno il dosimetro e passo attraverso lo scanner. Sarà la suggestione o un riflesso di luce ma mi sembra che stavolta si sia accesa anche la penultima spia rossa. Non sento suonare nessun allarme, il cancello si apre e sono libero di uscire. Nelle due ore successive parliamo poco, c’è chi elabora le incredibili emozioni provate in questi cinque giorni e chi ne approfitta per fare una dormita. A proposito della nostra guida Alexander Sirota: è un appassionato di fotografia e ho saputo che era un residente di Pripyat quando è scoppiato il reattore quattro e aveva appena nove anni al momento dell’evacuazione. C’era una strana espressione cupa sul suo volto quando entravamo a Pripyat, qualcosa a cui all’inizio non avevo dato troppa importanza. Il suo viso esprimeva uno stato d’animo molto simile alla malinconia. Non riesco nemmeno a pensare quanti brutti ricordi possiamo riaffiorare nella mente di una persona che ha subito un simile trauma. Mi piace immaginarlo solo, in giro per la città fantasma, mentre fotografa i luoghi che frequentava da bambino.
Siamo arrivati al punto di partenza, il Tourist Hotel Complex, dove tutto è iniziato. Salutiamo Yuri e Alexander, portiamo in camera i bagagli e corriamo al solito ristorante per ordinare un buon borscht caldo. Siamo tutti visibilmente stanchi ma non è ancora il momento di mollare. Domani a Kiev ci aspetterà un’altra grande avventura.
Ultimo giorno a Kiev e ritorno in Italia
Oggi il sole risplende su Kiev. Usciamo dall’albergo per incontrare un esploratore urbano locale. Questa mattina ci aspetta una straordinaria esperienza urbex dentro un bunker della guerra fredda perfettamente conservato. Il resto della giornata prosegue tranquillo visitando chiese ortodosse di rara bellezza e passeggiando per le vie principali riempite di bancarelle con ogni tipo di souvenir. La sera ammiriamo i principali monumenti e palazzi del centro città illuminati in tutto il loro fascino est europeo. Il giorno dopo il mio volo parte nel tardo pomeriggio (in realtà subirà un ritardo di più di quattro ore) per cui passo la mattina visitando il memoriale della guerra sotto l’imponente statua della Madre Patria.
Considerazioni finali
Questo viaggio fuori dal comune all’interno della zona di alienazione di Chernobyl, in un ambiente estremo e misterioso, è stato un’emozione molto intensa. Sicuramente non sarà l’ultima volta che visiterò queste terre. Ancora oggi non riesco a togliermi dalla testa l’angoscia dei fantasmi grigi e decadenti di Pripyat o il calore e la voglia di vivere delle vecchie babushka. E’ stata una grande opportunità per conoscere nuovi posti e persone straordinarie. Col passare dei giorni non vedevo più la zona con stupore o con lo spirito d’avventura che avevo all’inizio. Capivo solo quanto immane fosse stata la tragedia vissuta da migliaia di persone. Chi pratica urbex non può che rimanere rapito davanti alla pietosa decadenza di Pripyat. Sembra di vivere una scena di un film post apocalittico in prima persona. Tenendo bene a mente che il disastro di Chernobyl è stato en evento catastrofico, ho cercato di realizzare immagini di forte impatto senza però spettacolarizzare la disgrazia. Attraverso la passione per la fotografia e i luoghi abbandonati, ho tentato di testimoniare la vita e la morte dentro la zona di alienazione, rendendo un profondo omaggio alle vittime di questa sciagurata follia umana.
Si poteva imparare così tanto da questo terribile disastro sui pericoli del nucleare. Il lascito di Chernobyl è un ecosistema irrimediabilmente compromesso per migliaia di anni, centinaia di vite spezzate in nome del sacrificio e città fantasma. Le radiazioni hanno compromesso le infrastrutture e danneggiato gravemente l’economia rurale delle zone colpite. A dispetto della devastazione che vi si è abbattuta, si riesce comunque a cogliere una flebile luce di speranza. Vedendo come la natura abbia resistito in tutti questi anni e di come si stia riappropriando di questo luogo maledetto e malato, ritrovo una rinnovata fiducia nel futuro. La debole illusione è subito spazzata via perché l’uomo però ha il brutto vizio di dimenticare in fretta i propri errori, non importa quanto gravi essi siano. E così è avvenuta la seconda catastrofe nucleare più grave del mondo, quella della centrale di Fukushima che ricorda molto l’incidente di Chernobyl, con dei nuovi liquidatori, un’altra zona di alienazione e chissà quante sostanze radioattive rilasciate nell’ambiente. Anche in questo caso si sta ventilando l’ipotesi di costruire un sarcofago di contenimento.
Recentemente sono venuti a galla alcuni difetti di fabbricazione in alcuni reattori francesi, con le autorità che hanno aumentato il perimetro di sicurezza e distribuito gratuitamente alla popolazione compresse di iodio per proteggere la tiroide. Che cosa dire poi dello “strano” incidente di Njonoska in Russia, dove bugie e disinformazione ricordano lo stesso modus operandi di Chernobyl. Dopo l’incidente di Fukushima Dai-ichi il Giappone ha spento tutte le sue centrali, per riattivarne in seguito solo alcune. La Germania e la Svezia hanno dichiarato di voler eliminare l’energia nucleare dal proprio piano di sviluppo mentre la Francia ha in programma di diminuire la sua dipendenza dall’atomo. L’energia nucleare ha conosciuto un periodo florido e vitale ma dopo l’incidente di Chernobyl il suo futuro era diventato più incerto che mai. Purtroppo la recente crisi petrolifera ha portato alla costruzione di nuove centrali nucleari: nel mondo ci sono più di quattrocento impianti atomici, senza considerare quelli a uso militare. Nel frattempo i paesi dell’est Europa e quelli asiatici hanno in progetto la costruzione di nuove centrali, con soluzioni innovative e sperimentali. Questo viaggio mi ha fatto capire ancora di più che bisogna portare rispetto e cautela verso l’energia atomica. Ho guardato le cose da un punto di vista privilegiato, imparando di più in questi cinque giorni che in trent’anni di storia. Storia che spesso contiene una morale non necessariamente a lieto fine: gestire con leggerezza e non curanza un’energia così potente e imprevedibile può essere fatale. Il problema non è puramente tecnico ma anche etico.
Hai fatto un reportage fotografico e giornalistico eccezionale. Grazie mille per questa grande, purtroppo drammatica, testimonianza.
Ciao Mariangela, grazie per i complimenti. E’ stato un viaggio veramente emozionante e toccante. Purtroppo è stata una grande tragedia che il mondo si trascinerà dietro per tantissimi anni.
avrei 1 milione di domande da fare sulla centrale, mi piacerebbe molto visitarla ma ho molta paura delle radiazioni, comunque non ho capito una cosa, ma è ancora in parte operativa la centrale?
Ciao Luca, la visita all’interno della centrale non dura molto e il posto più radioattivo che puoi visitare è la sala controllo del reattore quattro, stanza in cui si può stare veramente poco. Detto questo con le dovute attenzioni passare qualche giorno all’interno della zona non è così dannoso come può sembrare.
La centrale non è più operativa. L’ultimo reattore, il numero tre, è stato spento il 15 dicembre del 2000 e il personale rimasto si occupa della sicurezza e del graduale smantellamento.
Ti consiglio di guardare anche questa pagina con altre immagini della centrale di Chernobyl: https://www.alessiodileo.it/disastro-di-chernobyl-incidente-centrale-nucleare/
Bellissima documentazione con foto stupende ed eccezionali….Grazie di avere condiviso il tuo diario con noi.
Vedendo ache altri tuoi lavori meriterebbero la pubblicazione anche stampata…se cosi fosse io la comprerei.. 😉
Ciao Ugo! Grazie per le belle parole. Avevo in mente qualcosa del genere ma prima volevo tornare nella zona per avere altro materiale. Avevo già in programma un viaggio lo scorso anno ma purtroppo è tutto spostato a data da destinarsi.
Ciao Alessio, complimenti bell’articolo e bellissime foto.
Ciao Massimiliano, grazie per i complimenti. Quando la situazione si normalizzerà (spero presto) sicuramente ci ritornerò per continuare il reportage.
Ciao Alessio, guadando le tue suggestive e splendide foto (fantastiche quelle col tramonto!) e leggendo il tuo racconto, ho potuto immergemi in prima persona in questa magica, sinistra e malinconica atmosfera. E’ il miglior reportage che abbia trovato in rete. Io purtroppo non potrò mai visitare queste zone, in quanto ho avuto pochi anni fa un tumore alla tiroide, quindi ti ringrazio per avermici portato. Compimenti davvero!
Ciao Marco, ti ringrazio molto per i complimenti. In tre parole hai riassunto perfettamente l’atmosfera del viaggio: magica, sinistra e malinconica.
Mi spiace che tu non possa vedere di persona quelle zone perché un viaggio del genere – se ben organizzato – ti lascia dentro molte emozioni talmente particolari che difficilmente le potrai ritrovare in viaggi diciamo più “normali”.
Quando mi sarà possibile, terminata l’emergenza Covid, ho in programma di ritornarci.
A presto.
Alessio
Ciao Alessio, ho letto l’articolo tutto d’un fiato, davvero molto dettagliato e coinvolgente. Bellissime foto! Anche io vorrei andarci un giorno e spero che sarà ancora possibile visitare il tutto.
Ciao Ettore, sono felice che ti sia piaciuto. Ho cercato di trasmettere tutto quello che ho provato durante il viaggio! Sicuramente le cose si normalizzeranno e si potrà a viaggiare con più tranquillità. A presto. Alessio
Fantastica descrizione: emozionante, precisa, attenta , sensibile. Foto da National Geographic. Che dire ” complimenti “.
Grazie Fabio! E’ stata un’esperienza davvero indimenticabile, sotto tutti i punti di vista. Spero di tornarci presto.
ottime foto
Ciao Arcangelo, contento ti siano piaciute! E’ stata un’esperienza molto forte.
Sera torno a guardare questo articolo molto interessante sono un appassionato della storia di Cernobyl e spero di poterci andare un giorno per scattare in bn con le mie Nikon